Difficile dimenticare il piccolo museo ebraico di Dublino in Walworth Road.
Un vecchio di origini lituane lo tiene aperto la domenica, seduto in un angusto corridoio tra vecchie foto e pile di ritagli ingialliti di giornale.
Un’unica saletta, le vetrine zeppe di oggetti e documenti, dove è in bella vista anche una foto di Joyce che fece di un ebreo il protagonista del suo capolavoro, l’ “Ulisse”, in tempi in cui l’antisemitismo contagiava anche i migliori, conformisti o anticonformisti che fossero.
In un angolo un’umile cucina ebraica di inizio Novecento, la stufa con le pentole di rame, il lavello bianco con il bacile cromato, la tavola apparecchiata per la cena del sabato: la tovaglia bianca, quattro piatti, le forchette, i bicchieri, una bottiglia, due candelabri.
Al piano di sopra, cui si accede salendo una stretta scala di legno e sfiorando innumerevoli ritratti, la piccola sinagoga. C’è l’arca, cioè l’armadio dove viene custodito il rotolo della Torah, la “Legge”, in ebraico, vale a dire l’insieme dei primi cinque libri della Bibbia. L’armadio è appoggiato alla parete ed è chiuso da un elegante tendaggio violetto su cui è ricamata la stella di Davide. Il rotolo della Torah è stato tolto dall’arca ed è esposto sul podio per la lettura, come avviene sempre nelle sinagoghe il sabato. C’è il candelabro a sette bracci. Ci sono i vecchi banchi scrostati e logorati dalle lunghe frequentazioni e ora irrimediabilmente vuoti.
Il museo raccoglie le memorie di una piccola comunità che non c’è più, anche se ci sono ancora degli ebrei in città (circa un migliaio). I più sono emigrati verso gli Stati Uniti d’America, la Gran Bretagna o Israele, Paesi dove molti ebrei, all’indomani della Seconda guerra mondiale, cercavano una sicurezza certa e più solide comunità.
La lettera della vergogna
Gli ebrei alla fine dell’Ottocento approdavano in Gran Bretagna e in Irlanda fuggendo dalle persecuzioni dello zar Alessandro II di Russia. Erano per lo più askenaziti provenienti dalla Lituania. Molti di loro, per la verità, avevano progettato di andare in America. Avevano pagato il costosissimo biglietto, ma capitava spesso che i padroni delle navi su cui fuggivano li scaricassero nei porti inglesi o irlandesi, dicendo loro che erano arrivati negli Stati Uniti. Non succede così anche oggi per tanti migranti in fuga che pagano costosissimi biglietti per approdare a una nuova terra e invece vengono talvolta scaricati altrove, se non addirittura in mare?
Anche il vecchio custode del museo è un discendente dei lituani in fuga dalle persecuzioni dello zar.
L’Irlanda era ospitale e il secolare scontro tra cattolici e protestanti non coinvolse gli ebrei. Le piccole comunità ebraiche non furono mai perseguitate, anche se l’antisemitismo era diffuso nell’isola come in tutta l’Europa.
Si ricorda solo un episodio accaduto a Limerick nel 1904 quando, in seguito a una predica antiebraica di un sacerdote redentorista, che aveva definito gli ebrei “nemici di tutta l’Europa”, ci furono due settimane di violenze contro la piccola comunità ebraica. Non ci furono morti e il sacerdote antisemita fu sconfessato dai superiori. Ma le violenze si tramutarono in un lungo boicottaggio delle attività commerciali ebraiche, fino a che gli ebrei furono costretti a spostarsi in altre città irlandesi o ad andarsene in America.
In quella occasione Arthur Griffith, fondatore l’anno dopo del partito indipendentista Sinn Féin, si schierò contro gli ebrei e quell’episodio è documentato nel piccolo museo. Altri indipendentisti presero invece le loro difese.
Gli ebrei, nel complesso, si inserivano bene nelle comunità locali, al punto che tanto Belfast che Dublino, ma anche Cork, ebbero sindaci ebrei: Otto Jaffe fu sindaco di Belfast nel 1899 e poi ancora nel 1904; Robert Briscoe, stretto collaboratore di Michael Collins durante la guerra di indipendenza (1919-21), fu sindaco di Dublino tra gli anni ‘50 e ‘60, mentre suo figlio Ben lo fu alla fine degli anni ‘80. Gerald Goldberg, appartenente a una delle famiglie ebraiche fuggite da Limerick e rifugiatesi a Cork, divenne sindaco di quest’ultima città nel 1977.
Ma quando ci furono in Europa le persecuzioni naziste e fasciste l’Irlanda dimenticò la sua tradizionale ospitalità (una virtù che per Joyce è parte integrante dell’essere irlandesi, anzi la principale) e per gli ebrei in fuga dalle nuove e ben più terribili persecuzioni fu difficilissimo trovare posto nella verde isola. Il piccolo museo di Dublino non si dimentica anche per questo.
Vi è esposta in gigantografia una lettera della fine del 1938 del governo irlandese in cui, in risposta a una richiesta di asilo per sei, sette rifugiati ebrei (sì, sei, sette!), appartenenti a qualificate categorie professionali, si dichiara cinicamente che 1’Irlanda non ha bisogno di queste competenze. E si rifiuta l’asilo. Uno dei tanti rifiuti, perché soltanto una sessantina di ebrei furono accolti dalla neutrale Irlanda tra il 1933 e i1 1946.
E oggi i giornali, gli storici, i commentatori politici non possono che ricordare con vergogna quella mancata accoglienza e non possono non interrogarsi sul destino di migliaia di ebrei che morirono nello sterminio perché ci furono nazioni europee, libere e democratiche, tra cui l’Irlanda, che li respinsero (da parte loro, Stati Uniti e Inghilterra frenarono a lungo l’accoglienza degli ebrei in fuga dai nazisti, lasciandone molti al loro destino prima di spalancare loro le porte.
Gli altri non dimenticano
A noi tutto questo sembra assurdo, stentiamo a credere che sia potuto accadere.
Ma un domani qualche storico africano o asiatico potrà fare un bilancio di quanti suoi connazionali in fuga dalle persecuzioni durante una qualche dittatura furono accolti in Europa.
E potrà raccontare che in Europa, durante quelle persecuzioni, accanto a quanti accoglievano, ci furono anche quelli che si vantavano di contrastare con la forza l’arrivo dei rifugiati. Quasi fosse un merito.
Se chiedi al vecchio custode lituano qualche notizia su quella agghiacciante lettera di rifiuto d’asilo, lui ti risponderà accalorandosi, si alzerà in piedi e, come avesse davanti la visione di quei lontani volti imploranti invano un rifugio, ti dirà: “Abbiamo abbastanza competenze: questa fu la risposta! Abbiamo abbastanza competenze!”.
La lettera di richiesta di asilo portava la firma di Isaac Halevy Hertzog, rabbino capo in Palestina in quegli anni. In precedenza Hertzog era stato rabbino capo d’Irlanda, dove aveva vissuto a lungo, risiedendo prima a Belfast, dove la comunità ebraica e sempre stata più numerosa, e poi a Dublino. A Belfast era nato e a Dublino si era poi formato suo figlio, Chaim Hertzog, che sarà presidente dello Stato di Israele dal 1983 al 1993.
E fu proprio l’ebreo irlandese Chaim Hertzog a inaugurare, nel 1985, nella sua veste di presidente dello Stato d’Israele, il piccolo museo ebraico di Dublino. Con quella gigantesca lettera della vergogna, bene in vista, in cui si rispondeva “no” alla richiesta di suo padre per sei rifugiati ebrei.
Ma c’e qualcosa anche per noi italiani nel piccolo museo.
Proprio nella vetrina dedicata all’Olocausto c’è una tabella intitolata “Il Duce: i fatti”. Vi si riporta una cronologia del fascismo: dalla marcia su Roma alle brutali repressioni di Graziani (“i1 macellaio”) in Libia; dalla conquista dell’Etiopia, anche con l’uso dei gas contro truppe e villaggi, alle leggi antiebraiche del 1938; dall’entrata in guerra a fianco di Hitler alle deportazioni degli ebrei nei campi di sterminio.
L’Irlanda dette pochissima ospitalità agli ebrei in quegli anni, ma l’Italia li perseguitò e fu complice dello sterminio, anche se molti italiani aiutarono gli ebrei a fuggire o li protessero. L’Italia fu vergognosamente complice di Hitler. A volte nel nostro Paese lo si dimentica. Si preferisce, magari, parlare soltanto dei crudeli tedeschi. Purtroppo con loro c’eravamo anche noi, e gli altri, specialmente le vittime, non lo dimenticano.
Pubblicato sul quotidiano “l’Adige” il 26 gennaio 2006 e nel volume “Bloomsday. Cronache dublinesi” (2011).