Aldo Gorfer: una vita a raccontare il Trentino, una vita a “l’Adige”.
Se n’è andato dieci anni fa, ma i suoi libri – spesso con le bellissime foto dell’amico Flavio Faganello, scomparso lo scorso anno – ce lo conservano più vivo che mai con la freschezza di una scrittura moderna, secca, nervosa.
Con immancabili lampi di passione.
E una vena di nostalgia, sempre controllata.
Si definiva un “romantico difensore delle cause perdute”.
Raccontava un Trentino che spariva, inghiottito dalla modernità, quella che portava il pane e le comodità dopo secoli di miseria e sacrifici, ma anche la modernità avida, prepotente, cinica che vedeva solo affari là dove c’erano storia, natura, cultura.
Il suo “manifesto”, amaro e battagliero, è tutto nella premessa alla seconda edizione delle Valli del Trentino, del 1975, ancor oggi – dopo trent’anni! – la miglior guida della nostra provincia.
La prima edizione era del 1959, anni di speranze nello sviluppo turistico.
Un miraggio che “ci entusiasmava”, scrive Gorfer sedici anni dopo, ma dal quale, aggiunge,
nacque purtroppo un tipo di turismo che per certi versi ha disumanizzato il fragile ambiente montano; ha coinvolto drammaticamente le Alpi intere, seco trascinando le conseguenze del dissesto ecologico provocato dalle concentrazioni turistiche inventate là dove per millenni la natura era stata conservata libera.
Una crescita abnorme di infrastrutture e insediamenti, spesso sotto la spinta della speculazione, aveva cancellato il sogno di uno sviluppo dal volto umano e aveva spazzato via in pochi anni pezzi di un mondo che nella sua povertà sapeva dare significati profondi, di civiltà, alla vita personale e comunitaria.
Quel Trentino che si stava sfaldando, ambientalmente e umanamente, Gorfer l’aveva lucidamente visto e denunciato molti anni prima della tragedia di Stava e di quella di Tangentopoli.
E tutti i suoi libri, le sue memorabili inchieste, le sue minuziose e ampie ricerche storiche, le sue stupende descrizioni e interpretazioni del paesaggio – da geografo coltissimo qual era – avevano questo comune denominatore: far capire ai trentini, in primo luogo, senza cadere nel culto paesano della piccola patria, la bellezza, la ricchezza, l’inestimabile valore di ciò che la natura e le generazioni precedenti avevano loro lasciato.
Perché avessero stima di loro stessi e non svendessero l’anima. Gorfer non aveva solo una professione, aveva una missione.
E a rileggerlo oggi si rimane semplicemente sbigottitti, quasi commossi, di fronte a tanta minuziosa attenzione al mondo che descrive. A tanto amore da geografo amanuense. Da scienziato innamorato.
Quasi che quel villaggio, quella festa, quella campagna, quella chiesa, quel fiume, quel castello, quella montagna, quel documento, quella lapide, quell’edicola, quel palazzo, quel sentiero, quel vecchio, quel bosco contenessero in sé, nell’infinita ricchezza del lor piccolo, piccolissimo mondo, tutto il mondo.
L’opposto della fretta e della superficialità che ci stringono alla gola e uccidono l’anima delle cose, anche facendo grandi viaggi nel grande mondo.
Attraverso quest’opera di meticolosa e devota attenzione Gorfer sapeva trovare ciò che univa i particolari, sapeva comporre armonie là dove c’erano frammenti sparsi e disegnare fisionomie mettendo assieme innumerevoli tratti raccolti attraverso anni di pellegrinaggio tra i paesi e gli archivi.
Sapeva interpretare un mondo, dargli un volto, un nome, una identità là dove c’erano l’indeterminato, l’anonimo, il generico.
Nessuno come lui è più riuscito a tentare interpretazioni d’insieme del Trentino e della sua gente, letti dentro il mondo alpino e a ridosso della grande pianura.
Molti hanno scritto cose eccellenti, nel loro campo assai migliori, magari, di quelle di Gorfer; ma sempre parti, frammenti, pezzi.
Per questo possiamo ricordarlo come il miglior scrittore del dopoguerra di cose trentine. Ma anche come una persona che aveva una missione da compiere.
Pubblicato sul quotidiano “l’Adige” il 12 giugno 2006