Obbedivano agli ordini, lavoravano per il bene comune, erano spinti dalla sete di giustizia per i più miserabili del loro popolo. Così si raccontano i leaders dei Khmer Rossi che stanno sfilando davanti al Tribunale internazionale che li sta processando.
È cominciata a Phnom Penh la “Norimberga del comunismo cambogiano”.
Un milione e 700 mila uccisi
Il feroce regime dei Khmer Rossi, guidato da Pol Pot, si instaurò nell’aprile del 1975 e cadde tra la fine del 1978 e l’inizio del 1979 per mano del Vietnam che invase il paese e instaurò un nuovo governo. Tre anni, otto mesi, venti giorni: tanto durò il lucido e sanguinario “esperimento” che costò la vita a 1 milione e 700 mila cambogiani, un terzo della popolazione.
Uno dei crimini più spaventosi del Novecento. Un genocidio, non etnico, razziale o religioso, ma politico.
Giunge tardiva e contraddittoria la “Norimberga cambogiana”. Ma per i parenti delle vittime, e per tutti coloro che hanno assistito con disgusto all’impunità garantita in tutti questi anni ai responsabili del regime, è “meglio tardi che mai”.
Ho forse la faccia di un criminale?
Davanti ai giudici stanno sfilando un pugno di imputati eccellenti. Il più importante, Pol Pot, è però morto dieci anni fa, nel suo letto.
Sono distinti, cortesi questi imputati (“Ho forse la faccia di un criminale?” ha chiesto ironicamente uno di loro a un giornalista riprendendo un’analoga battuta attribuita a Pol Pot).
Sono personaggi tutt’altro che mediocri. Colti, intellettuali marxisti per lo più con ottimi studi alle spalle, magari alla Sorbona. Personaggi complessi, anche sofisticati.
Chi si immagina dei folli, dei tirannelli sanguinari da “terzo mondo” o degli esecutori senza coscienza è fuori strada. C’è molto Oriente millenario nelle loro personalità, molta tradizione cambogiana, sia nello stile che nell’ideologia. Ma c’è in loro anche molta più Europa di quanto non si creda, molta cultura e mitologia politica europea.
Non per niente i più importanti di loro hanno studiato nella Parigi degli anni Cinquanta, frequentandone i circoli marxisti, allora di moda nell’intellettualità occidentale e tra le nuove élite anticolonialiste africane e asiatiche.
Un terribile già visto
Nelle loro risposte e nei loro atteggiamenti c’è soprattutto un terribile già visto, già sentito che per noi europei rimanda in particolare alle storie e alle parole di coloro che furono chiamati a rispondere dei crimini nazisti: obbedivano agli ordini, lavoravano per un grande progetto di rinnovamento politico e umano. Erano anche colti, distinti e cortesi. Amavano Bach e Beethoven. Non avevano certo la faccia di criminali. Non uccidevano per il gusto di uccidere.
Questo terribile già visto, già sentito fa assumere al dramma cambogiano, pur così orientale e così comunista, cioè così particolare, i connotati di una perdurante tragedia universale, insieme politica ed esistenziale, che angosciosamente si rinnova.
Ed è la tragedia dell’uomo che non impara niente dalla storia e che deve fare i conti, ogni volta come se fosse la prima volta, con il male che è dentro di lui.
E non solo con il male puramente egoista o distruttivo annidato nel profondo, sia dell’individuo che del corpo sociale, e che balza fuori in determinate circostanze. Ma anche con il male più terribile, più subdolo e seduttivo, quello cioè che assume il volto del bene: il bene come ricerca della giustizia, dell’uguaglianza, della liberta, del miglioramento delle condizioni umane, della lotta contro il “male” stesso.
Assassinare per il bene
Questo angelo-demone vuole perseguire un alto obiettivo umano distruggendo pezzi di umanità (anche i responsabili della morte di migliaia di desaparecidos in Argentina lavoravano, negli stessi anni, per un progetto di “civiltà” che passava per la lucida distruzione di un pezzo di umanità).
Ci vorrebbe un Dostoevskij per descrivere quanto successo in Cambogia, il processo in corso, la natura angelico-diabolica di quel regime, le personalità così complesse dei suoi capi, l’intreccio cosi perverso ma per nulla strano tra bene e male che esse rivelano.
Ma se lui fosse qui, forse ci direbbe: io queste cose le ho già analizzate e raccontate nei miei libri, dovrei ripetermi, e comunque li avete i grandi scrittori che potrebbero dedicarsi a quest’opera se non si occupassero d’altro.
Cinque imputati
Gli imputati sono cinque, almeno finora. Il processo di Phnom Penh è ancora alle fasi preliminari. Verso la fine dell’anno dovremmo entrare nel vivo del dibattimento.
Insieme all’individuazione delle colpe di ciascun imputato, che é l’obiettivo inevitabile del processo, gli interrogatori, le testimonianze e la documentazione prodotta ci diranno ancora molto sulla natura del regime cambogiano, anche se moltissimo già si sa, almeno per chi ha voluto sapere e non si è girato dall’altra parte in tutti questi anni (hanno ragione coloro che accusano la sinistra storica mondiale e italiana di aver fatto tardi e male i conti con la lezione cambogiana; ancor oggi è disdicevole in certo ambienti occuparsi di questo tema, e l’esigua produzione editoriale italiana sull’argomento ne è un inequivocabile segnale).
“Duch”
“Duch” (Kaing Khek Iev), insegnante, 66 anni, capo di “S-21”, la prigione di Tuol Seng, un ex-liceo della capitale (oggi sede del Museo del Genocidio), il più importante centro di detenzione del paese dove furono ammazzate non meno di 14.000 persone e altre migliaia torturate.
Personaggio rigoroso, austero, inflessibile, era un giovane inquisitore e carnefice animato dalla volontà di costruire una Cambogia senza più ingiustizie.
La prigione che dirigeva era organizzatissima e tutto, ogni momento della vita e della morte del prigioniero, era attentamente pianificato, studiato nel dettaglio, classificato.
E oggi noi ne possiamo conoscere ogni aspetto grazie all’abbondante documentazione che i Khmer Rossi non hanno avuto il tempo di distruggere.
Duch si è poi convertito al cristianesimo. Arrestato nel 1999 sta raccontando molte cose, dopo aver rilasciato anche lunghe interviste a giornalisti stranieri.
Khieu Samphan
Khieu Samphan, 77 anni, era un giovane austero e impegnato per la causa dei poveri. Laurea alla Facoltà di diritto alla Sorbona con una tesi su “L’economia della Cambogia e i suoi progetti di modernizzazione” dove si prefiguravano i tratti del futuro regime dei Khmer Rossi: necessità dell’autarchia più completa, cioè dell’isolamento totale sia economico che politico del paese, eliminazione della borghesia e degli intellettuali formatisi sotto l’influenza occidentale, eliminazione della proprietà fondiaria, collettivizzazione assoluta, esaltazione della vita contadina e dei suoi legami di mutuo aiuto, costruzione di una nuova generazione.
Tra i fondatori dei Khmer Rossi, fama di politico incorruttibile, ma che faceva giustiziare le sue vittime dopo averle invitate a cena, capo di Stato dal 1976 al 1979, Samphan ha rappresentato poi i Khmer Rossi nelle sedi internazionali e ha vissuto in benestante libertà nel suo Paese, protetto dal capo del governo Hun Sen, fino al novembre 2007 quando venne arrestato.
Il suo avvocato difensore é Jacques Vergès, personaggio non meno multiforme e inquietante, partigiano e intellettuale comunista franco-vietnamita, amico di Pol Pot fin dagli anni parigini. Un avvocato che ha passato la vita a difendere tutto e il contrario di tutto: gli indipendentisti algerini, il nazista Klaus Barbie, il terrorista venezuelano Carlos, alcuni serial killer, alcuni poveri diavoli senza soldi, e poi Slobodan Milosevic….
Nuon Chea
Nuon Chea, 85 anni, giurista, studi a Bangkok, ideologo, capo della sicurezza e della propaganda, per un certo tempo anche capo del governo, braccio destro di Pol Pot, responsabile delle principali spietate “purghe” di stampo staliniano contro i nemici interni, mandante di molte esecuzioni di massa.
Coniava neologismi (proprio come accade in “1984” di Orwell, che non aveva letto) e cancellava dall’uso comune altre parole: distruggeva parole e persone per creare nuove parole e nuove persone. È stato arrestato nel settembre 2007 dopo aver vissuto sempre in benestante libertà.
Ieng Sary
Ieng Sary, 84 anni, ministro degli esteri, compagno della prima ora di Pol Pot fin dalle frequentazioni culturali e politiche a Parigi, tra i fondatori del Partito comunista cambogiano. Ha sposato la sorella della prima moglie di Pol Pot, è stato arrestato nel novembre del 2007 dopo aver vissuto sempre in benestante libertà a Phnom Penh.
Ieng Thirith
Ieng Thirith, 68 anni, moglie di Ieng Sary e sorella della prima moglie di Pol Pot, ministro per i problemi sociali. È stata arrestata col marito nel novembre del 2007 dopo aver vissuto con lui in benestante libertà a Phnom Penh.
Un altro illustre imputato, Mok, uno dei principali capi militari, arrestato nel 1999, è morto in carcere nel 2006.
Pol Pot, l’elettrotecnico a Parigi
Tra gli imputati non ci sarà, come detto, il massimo responsabile del regime, Pol Pot, il cui vero nome era Saloth Sar. È morto proprio dieci anni fa, il 15 aprile del 1998, a settantatré anni. Si è spento nel suo letto.
Figlio di una famiglia contadina benestante, scuola elementare dai missionari cattolici francesi, noviziato buddista, studente poco brillante, Saloth Sar consegue un brevetto di studi tecnici (carpenteria), ma riesce a ottenere con altri venti studenti il raro privilegio di una borsa di studio a Parigi messa in palio dal giovane re della Cambogia, Norodom Sihanouk.
Nella capitale francese, dove arriva nell’ottobre del 1949, frequenta una scuola di radio-elettronica, non la Sorbona come altri. Partecipa alle riunioni del circolo progressista degli studenti cambogiani che discutono su come liberare i1 paese dal colonialismo francese.
Non sono ancora marxisti, lo diventano.
Affascinato dal Terrore e da Stalin
Per i giovani cambogiani il Partito comunista francese, su posizioni staliniane, si rivela il solo faro anticolonialista (qui si aprirebbe una interessante riflessione su come molti giovani africani e asiatici che studiavano in Europa e che avrebbero guidato nei loro Paesi le lotte di indipendenza dal colonialismo europeo trovassero solo nel comunismo una chiave di lettura, un metodo di lotta, un obiettivo di riscatto politico ed economico per i loro popoli; questi strumenti indispensabili non li trovarono, perché non c’erano, né nella cultura politica cattolica, né in quella liberale o socialdemocratica, né tantomeno nella Chiesa ancora strettamente legata al potere coloniale; non era semplicemente presa in considerazione, invece, la lotta nonviolenta di Gandhi che aveva portato l’India alla liberazione dal colonialismo inglese).
Salot Sar, il futuro Pol Pot, frequenta i circoli del Partito comunista francese di Thorez, Eluard, Aragon, Sartre, Picasso. Più che dagli obbligatori testi classici del marxismo-leninismo, è affascinato da Stalin, ma anche dalla Rivoluzione francese e dal suo Terrore, in particolare dall’interpretazione che ne diede il principe e rivoluzionario russo Kropotkin: la nuova società può nascere solo dalla campagna, non dalla corrotta città; il riformatore sociale deve anzitutto distruggere il vecchio mondo con i suoi legami di autorità, e ciò libererà finalmente le tendenze naturali alla cooperazione, al mutuo aiuto insite nell’uomo: il compito del rivoluzionario è distruggere, il nuovo sarà costruito dal popolo liberato.
Guerriglia in Cambogia
Dopo tre anni di permanenza a Parigi, Salot Sar torna in Cambogia proprio mentre il Paese ottiene l’indipendenza totale dalla Francia e la famiglia reale Sihanouk ne assume il controllo.
Insegna storia e letteratura francese in una scuola privata. Nel 1963 è eletto segretario centrale del clandestino Partito cambogiano dei lavoratori, futuro nucleo di quello comunista, e si aggrega alla guerriglia. Il capo è lui anche se si tiene nell’ombra.
Diventano celebri il suo sorriso, i suoi modi straordinariamente affabili con cui tratta gli interlocutori, il suo eloquio suadente dal fascino irresistibile.
Il partito attacca il “revisionismo” sovietico di Krusciov e riafferma il ruolo della rivoluzione violenta per il socialismo che sarà guidata dall’alleanza contadini-intellettuali.
La subalternità rispetto ai vietnamiti comunisti, che combattono contro gli americani, è mal tollerata. Riemerge l’atavico conflitto tra Cambogia e Vietnam. Si rafforzano i legami ideologici, politici ed economici con Mao e la Cina che sarà la protettrice dei Khmer Rossi fino alla fine, soprattutto in funzione antisovietica.
Nei primi anni Settanta si intensifica la guerriglia dopo il colpo di Stato dell’impresentabile generale Lon Nol che, con l’aiuto degli americani, ha cacciato il re Sihanouk, personaggio dalle mille vite e dalle mille bandiere .
I testimoni inascoltati
Nelle zone occupate (due milioni di abitanti, un terzo della popolazione) i Khmer Rossi cominciano ad attuare la loro rivoluzione, il loro “esperimento” comunista, sapientemente propagandato, ma in realtà poco conosciuto data l’impenetrabile cortina dietro cui si cela, e raccolgono sempre più consensi, interni e internazionali, soprattutto dopo i terribili bombardamenti americani sulla Cambogia.
Ma un numero crescente di abitanti dei villaggi “liberati” dai Khmer Rossi fugge e racconta di spaventose oppressioni ed esecuzioni.
Un antropologo francese, Francois Bizot, alla fine del 1971 è tenuto in prigionia per tre mesi dai Khmer Rossi nella giungla. Il suo inquisitore è Duch, il futuro comandante della famigerata prigione-lager di Phnom Penh, che lo sottopone a lunghi interrogatori, ma che si intrattiene con lui anche in vivaci discussioni politiche e che alla fine lo giudica innocente e incredibilmente lo libera.
Bizot racconterà in un bellissimo libro (Il cancello, vedi “Nota bibliografica”) i suoi terribili mesi nella foresta, il sistema di terrore instaurato dai “liberatori”, e di come fosse rimasta inascoltata in Europa la sua verità sulla reale natura della rivoluzione dei Khmer Rossi e dell’assurdo credito che invece questi avevano presso molti intellettuali occidentali.
Il genocidio
Il 17 aprile 1975 i guerriglieri conquistano la capitale Phnom Penh e si instaurano al potere. Subito dopo ordinano l’evacuazione completa della città. Un esodo allucinante di due milioni e mezzo di persone.
La città è il 1uogo della corruzione occidentale e borghese, deve essere svuotata, annichilita, la popolazione deportata nelle campagne per essere rieducata. Tutte le proprietà, anche gli oggetti personali, devono essere abbandonati.
Ci sono massacri ed esecuzioni. Stesso destino per le altre città. I1 17 aprile diventa il “giorno primo” della nuova era. Comincia una storia nuova.
Svuotate le città, la popolazione è dislocata nei villaggi agricoli, in condizioni spesso difficilissime.
È divisa in due categorie: il popolo vecchio (i contadini che da sempre vivevano in campagna) e il popolo nuovo (i deportati).
Il primo ora ha tutto, il secondo nulla, neanche la speranza di vivere.
I deportati sono passati al vaglio uno ad uno dagli inquisitori per individuare i “nemici” da eliminare. Bastava avere un minimo di istruzione, una certa parentela, aver svolto un determinato lavoro, ma anche solo pronunciato una qualche parola “pericolosa” per essere individuati come nemici e uccisi.
“Papà” e “mamma”: parole proibite ai bambini
Tutti sono potenzialmente nemici. Le esecuzioni sono continue.
Molti muoiono di fame, malattie, torture, lavoro disumano. I contadini, da sempre i cambogiani più poveri e oppressi, ora hanno il primo posto nella gerarchia sociale. E con loro i bambini e i giovani che devono essere liberati da tutti i legami precedenti (familiari, educativi, sociali, religiosi) per fame i1 nucleo del popolo davvero nuovo.
I bambini devono chiamare i loro genitori “zio” e “zia”, così come gli altri adulti. A volte sono coinvolti come inquisitori nei processi contro i loro genitori, nonni, parenti. A volte devono uccidere.
“Bellezza”: parola proibita
Il linguaggio è epurato e reinventato.
Nuon Chea, il capo della sicurezza e della propaganda, oggi sotto processo, proibisce un certo numero di parole, come “bellezza” o “benessere”, perché i pensieri pericolosi, cioè borghesi, spariscono se spariscono le parole che li esprimono.
La proprietà privata è abolita, e così il mercato. È abolito anche il denaro. Nessuna rivoluzione era giunta a tanto.
Cucine e mense comuni nei villaggi. Anche ogni pensiero individuale deve essere distrutto.
La religione è cancellata
La costruzione della nuova personalità passa attraverso il duro lavoro nei campi, cui tutti, nessuno escluso, devono essere soggetti; e poi attraverso la fame e il poco sonno.
Indebolito così l’individuo, si possono seminare in lui i valori rivoluzionari.
L’“io” deve essere sostituito dal “noi”. I matrimoni non sono affari privati ma dello Stato. La religione cancellata. I centri buddhisti demoliti o trasformati in magazzini. I monaci, “parassiti”, mandati nei campi.
Il Partito comunista cambogiano emana in continuazione direttive sul ruolo decisivo della repressione violenta per distruggere sul nascere ogni avvisaglia controrivoluzionaria.
I “nemici interni” sono i peggiori e vanno eliminati. Nel carcere “S-21” diretto da Duch arrivano nella primavera del 1977 almeno mille prigionieri al mese. Si tortura, si estorcono confessioni, si uccide, soprattutto battendo a morte con i bastoni i prigionieri. Nei villaggi aumentano le esecuzioni decise sul posto.
Distruggere un popolo e crearne uno novo
Lo sterminio di una parte della popolazione è per i Khmer Rossi la condizione per ripartire da zero e costruire un popolo nuovo salvando l’unico nucleo puro, quello dei contadini.
La propaganda del regime diffonde però ben altre immagini del tragico “esperimento”. Pol Pot esalta l’“originalità” della rivoluzione cambogiana rispetto ai vecchi modelli di comunismo, i suoi successi economici (del tutto inesistenti), il recupero di forme antiche di vita comunitaria rurale.
La nuova Cambogia è vista nel mondo con non poche simpatie, non solo dai governi amici. Ieng Sary, ministro degli esteri, oggi sotto processo, afferma in quegli anni: “Noi desideriamo realizzare qualcosa che non si è mai verificato prima nella storia”.
La sinistra cieca
Ma nessun giornalista straniero é ammesso nel paese, chiuso nella più impenetrabile segretezza, rotta però dalle testimonianze agghiaccianti di missionari, giornalisti, singole personalità, e soprattutto di migliaia di profughi che sono riusciti a fuggire e raccontano gli orrori visti e subiti.
Ma molti non li ascoltano, tra cui tanti intellettuali di sinistra ancora affascinati dall’“originalità” della rivoluzione cambogiana. Un fascino duro a morire.
Poi arriveranno i pentimenti (come nel caso di Tiziano Terzani). Si ripropone la tragedia dei lager nazisti: molti dissero “non sapevamo”, ma si sapevano molte cose. Bisognava essere però disponibili ad accettare delle verità scomode e terribili. Anche se non venivano dalla propria parte. Anche se mettevano in discussione la propria parte. Non si voleva vedere, perciò non si vedeva.
Il Vietnam pone fino allo sterminio
Tra il 1977 e il 1978 aumentano di intensità e di violenza le purghe inteme contro i “microbi”. Vengono assassinati centinaia di dirigenti del partito e migliaia di Khmer Rossi di origine vietnamita.
Nella primavera del 1978 si moltiplicano i massacri e gli scontri soprattutto sul confine con 1’amico-nemico comunista Vietnam, sostenuto dall’Unione Sovietica, che da sempre costituisce una potente minaccia per l’indipendenza cambogiana.
La Cina sostiene la Cambogia di Pol Pot in funzione antisovietica. L’antico conflitto tra Cambogia e Vietnam, pienamente riemerso, assume ora i connotati di uno scontro più vasto. Quello tra i due colossi del comunismo, 1’Urss e la Cina, in primo luogo. Ma anche quello tra Stati Uniti e Unione Sovietica, che finirà per portare il governo americano, che ha aperto una nuova stagione di rapporti con la Cina, dalla parte di Pol Pot in funzione antisovietica.
Nel Natale del 1978 il Vietnam invade la Cambogia e in dieci giorni il regime dei Khmer Rossi è cancellato.
Ma i Khmer Rossi restano alle Nazioni Unite
Pol Pot e i suoi fuggono nella giungla, ai confini con la Thailandia, per riprendere la guerriglia, sostenuti dalla Cina e dalla stessa Thailandia (ma anche da altri). I1 Consiglio di sicurezza del1’ONU condanna l’invasione della Cambogia da parte del Vietnam con 131 voti contro 2, URSS e Cecoslovacchia. Ma é una decisione tutt’altro che transitoria.
E qui c’è la tragedia nella tragedia. Chi si aspetta un qualche tribunale per i Khmer Rossi, o almeno una loro ovvia messa al bando da parte della comunità internazionale, ora che si sa tutto sulle loro atrocità, deve assistere invece alla loro legittimazione. Mentre Pol Pot nei villaggi occupati instaura il consueto, spietato regime, i suoi rappresentanti formano con il re Siounuk un governo in esilio.
E sarà questo governo in esilio a rappresentare la Cambogia alle Nazioni Unite per un decennio (come se i nazisti fossero stati legittimati a rappresentare la Germania al1’ONU dal 1945 al 1955).
Dal 1979 al 1990, quando erano ben noti i crimini del regime dei Khmer Rossi, questi hanno continuato ad essere accreditati all’ONU come i legittimi rappresentanti della Cambogia. Ovviamente tutto questo accadeva con i1 consenso degli Stati Uniti e di molti paesi occidentali. C’era da condurre la battaglia campale contro l’Unione Sovietica. Ogni alleanza, a partire da quella con la Cina e i suoi amici, era utile.
E così come ci si serviva dei talebani in Afghanistan in funzione antisovietica, ci si serviva per lo stesso motivo dei Khmer Rossi: anche loro contribuivano a denunciare e ostacolare e l’espansionismo sovietico che stava dietro il Vietnam invasore della Cambogia…
Il decennio maledetto
Questo vergognoso capitolo di politica internazionale, vero capolavoro di cinismo (quello che gli strateghi e i politologi chiamano realismo), trovò il suo inevitabile e infelice compimento nell’accordo di pace sottoscritto a Parigi nell’ottobre del 1991, sotto l’egida dell’ONU, da Vietnam, Khmer Rossi e re Sihanouk (cioè da russi, americani e cinesi) che prevedeva libere elezioni a cui tutte le parti avrebbero potuto partecipare.
I Khmer Rossi venivano cosi definitivamente legittimati. Nel testo dell’accordo di pace non si fa menzione del genocidio che ha cancellato un terzo della popolazione cambogiana. Si parla soltanto di “politiche e pratiche del passato”.
I Khmer Rossi decisero poi di non partecipare alle prime elezioni che ebbero luogo nel 1993, e l’anno dopo vennero dichiarati “fuorilegge”. Molti si arresero, altri continuarono la guerriglia sotto la guida di Pol Pot.
Pol Pot muore nel suo letto
Alla fine di luglio del 1997 lo scontro interno ai Khmer Rossi arriva al suo apice. Pol Pot subisce un processo politico nella giungla da parte dei sopravvissuti gruppi di Khmer Rossi che si rivoltano contro di lui per acquisire un qualche merito prima della resa definitiva. La rivolta e guidata da Mok, braccio destro militare di Pol Pot e “mitico” comandante.
Il processo politico, cui era stato invitato anche il giornalista americano Nate Thayer, si conclude con la condanna di Pol Pot all’ergastolo. Mentre c’è la condanna a morte, subito eseguita, di tre comandanti dei Khmer Rossi.
Posto agli arresti domiciliari, Pol Pot continua la sua vita normale per alcuni mesi finché viene trovato morto nel suo letto il 15 aprile del 1998. Un attacco di cuore. Qualcuno dice un suicidio.
Davanti a specialisti e giornalisti stranieri il suo corpo viene fotografato e analizzato, e poi cremato con rito buddista su di una catasta di rifiuti e gomme d’auto. Neanche Shakespeare avrebbe potuto inventare un finale così squallido per una vicenda così enormemente tragica. Ma é stato lui a scrivere che la realtà supera sempre la fantasia.
Mok ai giornalisti dice: “Pol Pot è morto come una papaia matura. Adesso è niente più che escrementi di vacca, anzi meno importante perché quelli li possiamo almeno utilizzare come concime”.
I capi assassini vivono in libertà
Nei mesi successivi Mok rifiuta di arrendersi. Viene catturato e imprigionato l’anno seguente. È morto in carcere due anni fa.
Agli altri capi del regime, Khieu Samphan, Nuon Chea, Ieng Sary, viene permesso di vivere in libertà in Cambogia.
Le instancabili pressioni dei parenti delle vittime e delle associazioni per i diritti umani perché si istituisca un Tribunale internazionale vengono fatte proprie dall’amministrazione Clinton, in particolare dal segretario di Stato Madeleine Albright, che vuole chiudere l’infelice stagione di complicità diplomatiche con i Khmer Rossi.
E dopo anni di discussioni, le resistenze del governo cambogiano di Hun Sen, più propenso ai “basta col passato”, “è tempo di pacificazione”, “pensiamo al futuro”, vengono piegate. Con 1’istituzione di processi in più parti del mondo contro regimi e dittatori sanguinari, una eccezione cambogiana risulterebbe insostenibile.
Il processo inizia solo nel 2007
E così nel 2003 Onu e Cambogia firmano finalmente un accordo per istituire un tribunale misto, cambogiano-internazionale, per processare i leader dei Khmer Rossi. I1 tribunale viene inaugurato soltanto nel luglio del 2006. L’anno scorso gli arresti dei leader sopravvissuti e il 20 novembre 2007 l’inizio delle udienze.
Proprio mentre queste erano in corso, il 30 marzo è morto Dith Pran, il giornalista-fotografo cambogiano del “New York Times” sopravvissuto ai campi di sterminio di Pol Pot e che in questi trent’anni aveva partecipato in prima fila alla battaglia contro la legittimazione internazionale dei Khmer Rossi e per l’istituzione, invece, di un tribunale che li processasse.
La storia di Dith Pran, raccontata dal giornalista americano Sydney Schanberg, che aveva lavorato in Cambogia con lui fino all’arrivo al potere dei Khmer Rossi, divenne un famoso film, Urla del silenzio, girato nel 1985 da Roland Joffé, che emozionò e scosse il mondo. La Commissione dell’Onu per i diritti umani si rifiutò, nel decennio maledetto, di ascoltare la testimonianza di Dith Pran, così come di prendere in considerazione i tanti dossier che documentavano i massacri dei Khmer Rossi.
I1 coraggioso fotografo cambogiano non avrebbe mai immaginato che gli ultimi difensori del feroce regime comunista che aveva distrutto il suo popolo sarebbero stati gli anticomunisti.
Nota bibliografica
La bibliografia in italiano sull’argomento è assai limitata. In inglese e in francese c’è una messe ricchissima di testi, in libri, giornali, internet.
Tra i gli autori più autorevoli vanno segnalati David P. Chandler (The Tragedy of Cambodia, A History of Cambodia, Brother Number One, Voices from S-21) e Ben Kieman (The Pol Pot Regime, Genocide and Democracy in Cambodia). Impareggiabili come sempre le cronache del “New York Times”.
Qui ci limitiamo a segnalare alcuni libri in italiano molto utili.
Philip Short, Pol Pot. Anatomia di uno sterminio, Rizzoli, Milano 2005, pp. 663. Un monumentale ritratto politico di Pol Pot e del suo regime, ricco di documenti di prima mano, opera di un autore, già corrispondente della BBC, che ci ha dato anche un’importante biografia di Mao. Un libro discusso per talune tesi interpretative, ma che è il più completo pubblicato in Italia, e con una eccellente bibliografia.
Francois Bizot, Il Cancello, prefazione di John Le Carré, Ponte alle Grazie, Milano 2001, pp. 277. L’autore, un antropologo francese tenuto per alcuni mesi prigioniero nella giungla dai Khmer Rossi, nel 1971, racconta il regime di terrore da loro instaurato nei villaggi occupati e riporta nel dettaglio le lunghe discussioni politiche da lui avute con Duch, il suo inquisitore, uno dei personaggi oggi sotto processo.
Rithy Panh e Christine Chaumeau, S-21. La macchina di morte dei Khmer Rossi, O barra O edizioni, Milano 2004, pp. 187. Un cineasta cambogiano e una giornalista francese danno voce ai sopravvissuti della prigione lager di Phnom Penh; un libro intenso che tocca i temi della memoria, del perdono, della giustizia, della verità.
Tiziano Terzani, Fantasmi. Dispacci dalla Cambogia, Longanesi, Milano 2008, pp. 380. Un testo importante di un grande giornalista e testimone del nostro tempo, ma che ne documenta anche il pentimento rispetto ai duraturi abbagli filo Khmer Rossi, non inevitabili, che gli impedirono di vedere quello che accadeva (“L’immagine di una Cambogia retta da sanguinari khmer rossi, che fino a ieri è stata presentata nella stampa occidentale attraverso i racconti dei rifugiati cambogiani scampati a quello che essi definiscono ‘il regno del terrore’, è entrata ora pari pari nella propaganda di Hanoi”, così scriveva ancora il 3 gennaio 1978 in una corrispondenza per “La Repubblica”).
Pubbllicato su “Il Margine”, n. 4, 2008.