L’anno che ci stiamo lasciando alle spalle (2015) ha visto un aggravarsi senza precedenti del dramma dei profughi asiatici e africani che cercano salvezza in Europa. Quanto sul modo di rispondere a questo dramma, davvero epocale, potranno influire le orrende stragi terroristiche, rivendicate dagli estremisti islamici dell’Isis, che venerdì 13 novembre hanno insanguinato Parigi (dopo la strage di Charlie Hebdo del 7 gennaio), non è dato ancora di sapere.
L’Europa è sconvolta da questi attentati, tutti noi lo siamo, e la reazione anti-islamica, anti-immigrati, anti-rifugiati, con effetti di chiusura di frontiere e di rifiuto di accoglienza di profughi, è sempre pronta a scattare, fomentata da coloro che alimentano le paure per facili guadagni elettorali.
Ma è una reazione non solo moralmente e politicamente deprecabile, ma anche infantilmente cieca di fronte a un dramma che ha dimensioni imponenti e che costringe le nostre società, lo vogliano o no, ad affrontarlo seriamente.
I profughi sono le prime vittime del terrorismo
Scopo di questo articolo non è l’analisi del terrorismo di matrice islamica, non ne sarei peraltro in grado.
Ma due cose credo di dover ricordare prima di affrontare la questione dei profughi nel suo insieme.
In primo luogo, questo terrorismo non è un effetto del movimento di profughi, ma ne è una causa. Moltissimi profughi fuggono proprio da quei Paesi – la Siria, l’Afghanistan, l’Iraq; e poi la Somalia, la Nigeria, la Repubblica Centrafricana, il Mali, e altri dell’Africa subsahariana – flagellati dallo stesso terrorismo, nelle sue varianti e combinato in alcuni casi con la guerra, che ha insanguinato Parigi e altre città d’Europa.
Lo stesso terrorismo ha raso al suolo i villaggi di questi profughi, distrutto le loro case o capanne, incendiato le loro chiese cristiane o le loro moschee, fatto saltare in aria i loro mercati affollati, seminato il panico nei quartieri delle loro città, incendiato pozzi petroliferi, avvelenato sorgenti d’acqua, assaltato convogli, ucciso vecchi e bambini, violentato donne, torturato e decapitato uomini.
Questo terrorismo, con le sue varie facce, ha ammazzato decine e decine di migliaia di persone nei Paesi dai quali tantissimi di questi profughi fuggono cercando una nuova vita in Europa.
Terrorisi nati e cresciuti qui, non arrivati coi barconi
In secondo luogo, anche dalle stragi di Parigi del 13 novembre sta emergendo che molti degli autori sono giovani nati o cresciuti in Europa, così com’era accaduto in precedenti attentati, sia in Francia sia in Inghilterra.
Ci sarà anche qualche terrorista venuto da fuori, magari anche intrufolatosi tra i profughi, ma sono eccezioni.
Il che pone altri problemi, accanto alla lotta internazionale per combatterlo, per individuarne le centrali organizzative, la rete di appoggi, di finanziamenti, di complicità.
Ci pone altri problemi molto più vicini di quanto si pensi a quelli che poneva il terrorismo rosso e nero che abbiamo conosciuto in Italia tra gli anni Sessanta e Novanta del secolo passato e che causò la morte di quasi quattrocento persone: come mai questi giovani che sono cresciuti accanto a noi, nelle nostre scuole, nei nostri quartieri, nei nostri campi sportivi, che hanno respirato la nostra vita quotidiana, cantato le nostre stesse canzoni, visto i nostri stessi film decidono a un certo punto di fare stragi, di ammazzare innocenti in nome di un’ideologia, politica o religiosa che sia, di un sistema di valori alternativo a quello nel quale sono cresciuti?
Come mai mettono una bomba in una stazione ferroviaria, su un treno, in una banca, in una piazza, o si fanno esplodere in un teatro?
Come mai ammazzano senza pietà persone, innocenti e giuste, che hanno solo il torto di non pensarla come loro o di trovarsi casualmente nel luogo dove è stato deciso di spargere terrore?
Jihadi John e gli assassini di Ruffilli
Alla base ci sono ideologie, di matrice politica o religiosa, che tracciano una linea netta tra la vita che vale e quella che non vale niente. E tra le vite che valgono e quelle che non valgono niente. Vite che possono essere schiacciate come insetti senza particolari turbamenti in nome di una causa superiore.
Mohammed Emwazi, il «boia dell’Isis», soprannominato Jihadi John, che è stato dato per ucciso in Siria da droni americani poche ore prima delle stragi di Parigi, aveva dieci anni quando era arrivato a Londra dal Kuwait con la famiglia, normalissima, stabilitasi in un bel quartiere (ne scrive Fabio Cavalera sul «Corriere della sera» di sabato 14 novembre).
Un ragazzino timido e studioso, lo ricordano alla scuola elementare cattolica St Mary Magdalene, simpatico e piacevole, che sognava di fare il calciatore, tifava Manchester United e adorava i Simpson.
Poi ha conosciuto degli amici… L’anno scorso, a ventisette anni, si è fatto riprendere dalla tv, mascherato, a tagliare la gola a sette «infedeli» inginocchiati davanti a lui.
E io ho pensato a come i brigatisti rossi, nel 1988, uccisero a Forlì il mite e giusto professor Roberto Ruffilli, con cui avevo fatto un esame di storia e che nel 1983 era anche venuto a Brentonico, in Trentino, alla scuola di formazione politica della Rosa Bianca a ricordare Aldo Moro e Vittorio Bachelet, assassinati dalle Brigate Rosse.
I terroristi si fecero aprire da Ruffilli la porta di casa, lo fecero inginocchiare e gli spararono alla testa.
Anche lui era un «infedele» da schiacciare senza pietà.
Leggere Dostoevskij per capire il terrorismo
Anche gli uomini e le donne del commando che lo uccisero provenivano da famiglie normalissime, erano stati ragazzine e ragazzini timidi e studiosi, simpatici e piacevoli, avevano frequentato anche scuole cattoliche, o normalissime scuole pubbliche, avevano sognato di fare se non il calciatore la maestra, tifato Juve o Milan, i Beatles o i Rolling Stones, adorato Braccobaldo o Charlie Brown.
Il profilo dell’infanzia e dell’adolescenza dello stragista nero che mette la bomba su un treno, alla stazione o in un altro luogo affollato e ammazza decine di persone non era poi molto diverso.
Bisogna allora, prima del Corano, leggere Dostoevskij per capire questi terroristi islamici cresciuti tra di noi.
E risfogliare anche la storia d’Italia e d’Europa prima di quella della Siria, del Vicino Oriente o del mondo arabo.
La civiltà europea ha fatto e detto molto in materia di terrorismo, anche in anni recenti. È ipocrita ignorarlo e guardare al terrorismo di oggi come se fosse uno strano mostro venuto da un altro pianeta. Magari con i profughi che rischiano la vita, e spesso la perdono, fuggendo sui barconi.
Tre questioni fondamentali
Che cosa vuol dire per noi, allora, affrontare seriamente il dramma dei profughi?
Vuol dire cercare di rispondere a tre questioni fondamentali.
La prima: dobbiamo accogliere o respingere i profughi?
La seconda: quali sono le cause di questo fenomeno e cosa dobbiamo fare?
La terza: come ci dobbiamo porre di fronte al meticciato di civiltà e culture, che è un dato di fatto?
I.
NON POSSIAMO RIFUTARE DI SOCCORRERLI
Che non accada come agli ebrei
Il punto di partenza, per affrontare seriamente la questione, è che non possiamo rifiutare di soccorrere e di accogliere la persona perseguitata, cacciata di casa dalla guerra o da un regime politico, senza più nulla, che ci chiede aiuto. Non possiamo rifiutare questo aiuto senza venir meno a noi stessi, al nostro essere umani, cittadini d’Europa, cristiani. È un dovere.
L’Europa ha fatto proprio questo dovere dopo tante e tragiche guerre da essa causate e che provocarono fiumane di profughi, e dopo feroci dittature e persecuzioni politiche, religiose, razziali nate nel cuore di se stessa. Il profugo va soccorso, accolto, accudito.
Che non accada più quello che è successo a tanti profughi ebrei, ma anche a tanti profughi italiani, francesi, tedeschi, polacchi, slavi lungo l’Ottocento e il Novecento. L’Europa ha imparato dai propri tragici errori che il profugo è una vittima che non possiamo abbandonare al suo destino senza abbandonare il senso stesso del nostro essere persone e cittadini.
Diritto internazionale, Costituzione e Bibbia sono chiari
Tutto questo è poi diventato un caposaldo del diritto internazionale con la Convenzione di Ginevra del 1951.
La Costituzione italiana contiene questo principio nell’articolo 10:
Lo straniero, al quale sia impedito nel suo Paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana, ha diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge.
Per dei cristiani, poi, la questione diventa ancora più cogente, molto più di quanto non possano prevedere la Costituzione e la Convenzione di Ginevra.
Il cristianesimo è la religione dei Samaritani, di coloro che si fermano a soccorrere lo sconosciuto ferito. Il quale è anche fastidioso, anche costoso, di sicuro ingombrante e magari non appartenente al nostro gruppo sociale o religioso.
Di religioni rassicuranti, fondanti civiltà, garanti dell’ordine e della coesione sociale ce n’erano a bizzeffe quando l’ebreo Gesù si presentò sulla scena del mondo annunciando la sua buona notizia: soccorri, accogli, guarisci, visita, sfama, vesti, perdona, ama. Tutti, senza differenza alcuna. Lo straniero come gli altri, come quelli del tuo clan, della tua tribù, della tua città, della tua nazione. Questa è la «coesione sociale cristiana». Non c’è più ebreo, greco, romano, barbaro.
Gesù porterà alle estreme conseguenze i comandi della Legge e dei Profeti:
Il forestiero dimorante fra voi lo tratterete come colui che è nato fra di voi; tu l’amerai come te stesso, perché anche voi siete stati forestieri in terra d’Egitto (Levitico 19, 34);
il Signore rende giustizia all’orfano e alla vedova, ama il forestiero e gli dà pane e vestito (Esodo 10, 18);
e poi Isaia, Geremia, Zaccaria…
Gesù, portando alle estreme conseguenze, che hanno dell’inaudito, la Legge e i Profeti, arriva al punto di identificare se stesso, il Figlio dell’uomo e il Figlio di Dio, con il povero, l’affamato, lo straniero:
ero straniero e mi avete accolto (Matteo 25, 35),
tenetelo a mente perché su questo verterà il giudizio finale. E il cuore del Giudizio è il cuore del cristianesimo.
Il cristianesimo non è una religione naturale. Quei «comandi», quel giudizio sono qualcosa che fa fare un salto sconcertante alla natura umana, un salto impensabile. Hanno il potere di trasformarla. Di darle occhi nuovi, nuovi sensi.
Allora senti e vedi il mondo in un altro modo.
Ti accorgi anche dello sconosciuto, aggredito dai malvagi. Lo vedi, innanzitutto, ti fermi, lo soccorri. Non passi oltre, perché non puoi più passare oltre, qualunque cosa dica la legge.
Un muro gelido e una minoranza coraggiosa
La prima parte del 2015, così come gli ultimi mesi dell’anno precedente, sono stati invece molto duri sul fronte dell’accoglienza dei profughi, di questi sconosciuti feriti. Malgrado i ripetuti, spaventosi naufragi (il 18 aprile in un solo naufragio morirono 850 migranti, tra la Libia e Lampedusa, che andarono ad aggiungersi, con tanti altri di questo terribile anno, ai 22.804 morti nel Mediterraneo accertati dall’Onu fino al 31 dicembre 2014).
A volte veniva da chiedersi cosa fosse rimasto del cristianesimo nel nostro Paese.
Al dovere irrinunciabile di accogliere i rifugiati si è spesso risposto con la chiusura mentale, il silenzio, la freddezza, l’ostilità più o meno manifesta di larga parte dell’opinione pubblica, laica e cattolica, non solo di destra, ma anche di centro e di sinistra, anche della nuova «antipolitica» parlamentare (Grillo a giugno ha twittato di Roma «sommersa da topi, spazzatura e clandestini»).
Un muro gelido, rotto soltanto dalle associazioni di volontariato, da una minoranza coraggiosa di amministratori locali, da un certo numero di sacerdoti e parrocchie, dall’atteggiamento del governo Renzi che pur tra mille contraddizioni ha mantenuto su questo terreno una linea di umanità e civiltà.
Papa Francesco a Lampedusa: il sangue di tuo fratello grida
Un muro di indifferenza e inimicizia largamente diffuso in Europa, rotto soprattutto dalle parole e dai gesti insistenti e appassionati di papa Francesco, che fin dai primi giorni del suo pontificato non ha cessato di chiedere accoglienza e giustizia per le persone in cerca di asilo, fino ad arrivare poi, all’Angelus del 6 settembre scorso, a «ordinare» alle strutture ecclesiali (parrocchie, conventi, istituti) di accogliere ciascuna almeno una famiglia di profughi.
Perché si rispondesse finalmente, e concretamente, dopo tanto tergiversare, a quel drammatico grido che aveva lanciato a Lampedusa l’8 luglio 2013, quattro mesi dopo il suo insediamento sul soglio di Pietro, in quel memorabile viaggio inaugurale del suo pontificato:
«Chi è il responsabile del sangue di questi fratelli e sorelle? Nessuno! Tutti noi rispondiamo così: non sono io, io non c’entro, saranno altri, non certo io. Ma Dio chiede a ciascuno di noi: “Dov’è il sangue di tuo fratello che grida fino a me?”. Oggi nessuno nel mondo si sente responsabile di questo; abbiamo perso il senso della responsabilità fraterna».
Il memorabile benvenuto di Angela Merkel
In questa nostra riflessione non può mancare un riferimento alla Germania di Angela Merkel che in questo cruciale 2015 ha saputo porsi come capofila dei Paesi accoglienti.
Messa sotto accusa per la durezza con cui aveva trattato la crisi della Grecia, la moderata Merkel ha saputo nel momento più critico, di fronte alle chiusure e alle costruzioni di nuovi muri, al riemergere di vecchi fantasmi nazionalisti e xenofobi, tener vivo il senso dell’Europa umana e civile sognata dai fondatori.
Il suo «benvenuto» alla fiumana di stranieri che avevano risalito i Balcani, cacciati da tutti, resterà memorabile, qualunque cosa possa accadere in futuro.
Le cronache dell’apertura dei confini tedeschi a quella massa di persone in cerca di dignità e speranza vanno consegnate anche alla piccola memoria del “Margine”:
«Hegyshalom, confine Ungheria-Austria. “Freude, schöne Götterfunken, Tochter aus Elysium…” cantano tutti insieme, volontari tedeschi, ungheresi, austriaci e cechi, poliziotti bavaresi, e i migranti che avevano imparato l’inno online sognando la Terra promessa: sono le sei del pomeriggio quando il primo treno dall’Ungheria di Orbàn entra all’Hauptbahnohf, la stazione centrale di Monaco, con i primi novecento dei migliaia di disperati in fuga dalle guerre, e l’emozione travolge tutti.
Giovani studenti tedeschi e volontari delle Chiese abbracciano siriani e afgani stremati, agenti e team della Croce Rossa tedesca corrono al binario dando priorità ai bambini: vestiti asciutti e caldi, pupazzi di peluche, medicine.
Meno di un’ora di volo a sudovest, ad Hegyeshalom frontiera austro-ungherese, le stesse scene: migranti stremati varcano il confine a piedi nudi cantando l’ultimo movimento della Nona di Beethoven, l’inno dell’Unione Europea che coraggiosi volontari magiari, sfidando il regime, avevano insegnato loro in corsa. Medici e soldati austriaci accorrono a coprirli e rivestirli. Crocerossine viennesi giocano a pallone, qui dove per mezzo secolo corse la frontiera della “guerra fredda”, con bimbi fuggiti da Aleppo o Palmira.
Una generazione dopo la grande notte di Berlino unita, è crollato ieri il nuovo Muro con cui Orbàn voleva difendere “la purezza etnica dell’Europa cristiana”
(Andrea Tarquini, “Cade un altro Muro…”, «La Repubblica», 6 settembre 2015).
La Germania è lacerata
Pensare che l’atteggiamento della Merkel, e del pezzo della Germania che la sostiene, sia basato solo su calcoli economici e demografici è sbagliato. Sono aspetti rilevanti, ma non sono tutto.
La Germania è interiormente lacerata da questa questione, perché più di tutti gli altri Paesi ha voluto fare i conti con i fantasmi xenofobi, razzisti e nazionalisti del proprio passato, per essa ancor più spaventosi, e la politica di accoglienza dell’altro, del diverso, è un aspetto della volontà ferma, per quanto contrastata, di tantissimi tedeschi di impedire che questo passato possa risorgere e di costruire invece una Germania radicalmente diversa.
Ne è una conferma l’elezione, agli inizi di novembre, di Heinrich Bedford-Strohm a presidente della Chiesa evangelica tedesca (Ekd), il quale, sostenendo decisamente la politica migratoria di Angela Merkel, contro altri autorevoli rappresentanti della stessa Chiesa evangelica, come il ministro degli Interni, Thomas de Maizière, apertamente contrario alla politica del suo capo di governo, ha dichiarato che «chi in Europa vuole rifarsi alle radici cristiane deve essere pronto a fare di tutto per accogliere le persone che sono nel bisogno».
L’attentato a Henriette Reker
Né va dimenticato che il 18 ottobre la città di Colonia aveva eletto a sindaco, col 52,7% dei voti, Henriette Reker, distintasi per il suo impegno professionale e politico a favore dei rifugiati, sostenuta da una coalizione di centro, composta da Cdu, Verdi e Partito liberale.
La Reker, il giorno prima delle elezioni, era stata gravemente accoltellata da uno xenofobo, vicino all’estrema destra. Ha potuto lasciare, guarita, la clinica alla viglia di Ognissanti.
In questa storia c’è tutta la durezza del conflitto politico che sul tema migranti spacca la Germania, ma c’è anche la capacità positiva di risposta del Paese. Almeno finora.
Nel 2014 quasi 60 milioni tra sfollati e profughi
Qual è il limite dell’accoglienza? Se lo chiedono in molti, anche prima di aver accolto un solo profugo.
L’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati nel suo annuale Rapporto ha calcolato che nel 2014 i profughi nel mondo sono stati 59,5 milioni. Una nazione grande come l’Italia. Mai così tanti dalla seconda guerra mondiale.
Di questi, 38,2 milioni sono sfollati (fuggiaschi accolti all’interno del proprio Paese); 19,5 milioni sono rifugiati (fuggiaschi accolti oltre confine); 1,8 milioni richiedenti asilo.
Da dove fuggono e chi li accoglie
Da dove sono fuggiti? Siria (3,88 milioni), Afghanistan (2,59), Somalia (1,11), Sudan (666 mila), Sud Sudan (616 mila), Repubblica democratica del Congo (499 mila), Myanmar (479 mila), Repubblica Centrafricana (412 mila), Iraq (369 mila), Eritrea (369 mila). Tutti Paesi in guerra, o flagellati dal terrorismo, oppressi da dittature, da persecuzioni religiose, politiche, etniche. Il 51% dei fuggiaschi sono minori di diciotto anni.
Non è però l’Europa la destinazione principale di questi fuggiaschi, né l’America del Nord.
L’86% è accolto in Paesi poveri o cosiddetti «in via di sviluppo»: Turchia (1,59 milioni), Pakistan (1,51 milioni), Libano (1,15 milioni ), Iran (982 mila), Etiopia (659 mila), Giordania (654 mila), e poi Kenya, Chad, Uganda, Cina. Il 42% dei profughi è accolto in Paesi dove le persone vivono con meno di 5 dollari al giorno. Accolti nelle città, nei villaggi, nei molti e immensi campi profughi, dove intere generazioni nascono e crescono, e dove tanti non vogliono restare. Allora, qual è il limite della nostra accoglienza?
Nel suo insieme, l’Europa nel 2014 ha accolto 620 mila profughi, meno dell’Etiopia, la metà del Libano. L’Italia ne ha soccorso-accolto 170 mila, ma di questi più di centomila se ne sono subito andati verso il Nord Europa, a partire dai siriani (42.323) e dagli eritrei (34.329), e le richieste di asilo nel nostro Paese sono state, alla fine, 64.625.
Dov’è l’invasione?
Stranieri turisti e stranieri profughi
Quest’anno, a ottobre, i profughi accolti in Italia erano 140 mila, con una diminuzione del 9% rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente: molti hanno preferito la rotta balcanica. In Europa, fino a ottobre, ne sono arrivati 700.000. Forse arriveremo al milione a fine anno, tre quarti dei quali in Germania.
Qual è il limite della nostra accoglienza di fronte a questa immensa catastrofe umanitaria e di fronte all’accoglienza che danno tanti Paesi più poveri di noi?
Il Trentino, ad esempio, sta accogliendo 850 profughi.
Qual è il limite della nostra accoglienza?
Abbiamo esattamente 500 mila posti letto a disposizione dei turisti e sogniamo sempre un’invasione di stranieri. Ricchi, s’intende. Qual è il limite della nostra accoglienza di stranieri poveri? C’è un universo di sofferenze intorno a noi: possiamo immaginare di rimanerne estranei?
Crediamo poi di non avere nessuna responsabilità nella tragedia dei profughi e di avere solo dei pesi da sopportare?
II.
LE CAUSE
Le sciagurate guerre occidentali nel Vicino Oriente
Parliamo dunque delle cause e di che cosa dobbiamo fare, insieme all’accoglienza.
Le cause sono essenzialmente le guerre, le persecuzioni politiche e religiose, il terrorismo, i disastri ambientali, le disuguaglianze economiche e la povertà.
La sola guerra in Siria, scoppiata quasi cinque anni fa, ha provocato 250 mila morti e 12 milioni (più della metà della popolazione) tra sfollati e rifugiati.
I tragici fatti terroristici di Parigi stanno provocando, mentre scriviamo, una svolta nel conflitto, e c’è solo da sperare che la politica vera, che finora è mancata nella risoluzione di quel conflitto (irrisolto e intricato, per colpa del disaccordo Usa-Urss sul destino del presidente Assad, e comunque sul controllo geopolitico dell’area), prenda il sopravvento. Quella vera politica che è mancata nelle funeste guerre di Bush e alleati in Afghanistan e in Iraq, matrici di ulteriore destabilizzazione di una regione già di per sé fragile e complicata.
Papa Giovanni Paolo II rimase inascoltato nei suoi accorati appelli contro quelle guerre, e con lui i non molti pacifisti di allora. Realismo dei pacifisti, irresponsabilità dei realisti come spesso accade, e come sempre poi si dimentica.
E solo adesso, Tony Blair, che come capo del governo inglese appoggiò nel 2003 la disastrosa guerra in Iraq di Bush, ammette che sbagliò e chiede scusa. L’ha fatto il 25 ottobre scorso in una intervista alla Cnn. Dieci anni dopo. Dieci anni di disastri nel Vicino Oriente, e di rafforzamento e diffusione del terrorismo islamico, come ammette lo stesso Blair.
Impareranno i realisti da questi tragici errori?
Impareranno i pacifisti a credere più in se stessi e a tornare a far sentire con coraggio e convinzione le ragioni della politica contro quelle dei guerrafondai?
Persecuzioni religiose ed etniche, repressioni politiche, traffico di armi
Mentre sono diminuite le guerre tra Stati, sono aumentate quelle interne ai singoli Stati, soprattutto nell’Africa subsahariana.
Sono guerre dove spesso si intrecciano il terrorismo di matrice islamica, le repressioni da parte dei regimi autoritari (Eritrea in primis), le persecuzioni religiose ed etniche.
In cinquantacinque Paesi la libertà religiosa è a rischio, in venti non esiste. Almeno 100 mila profughi arrivati sulle coste d’Europa nel 2014 provenivano da dieci di quei Paesi dove sono in atto persecuzioni religiose (si veda l’ottimo libro di monsignor Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes, Uomini e donne come noi. I migranti, l’Europa, la Chiesa, La Scuola 2015). E i perseguitati sono cristiani e musulmani.
Il commercio delle armi gioca un ruolo determinante in questi conflitti. Armi prodotte in Europa, Stati Uniti, Russia e Cina.
Lo documenta un dettagliato dossier sugli armamenti in Africa curato da Maurizio Simoncelli e pubblicato nel 2015 sul numero di novembre della rivista «Nigrizia». Produzione in crescita, commercio in crescita, conflitti in crescita: «dal 1° gennaio al 19 settembre 2015 vi sono stati ben 11.423 episodi di violenza armata in tutto il continente».
Anche l’Italia vende armi, leggere, tutt’altro che di secondaria importanza, tanto che furono definite nel 2000 dall’allora segretario dell’Onu, Kofi Annan, «le vere armi di distruzione di massa».
I colossali affari dei Paesi ricchi
Dietro i conflitti che causano le migrazioni forzate ci sono anche i colossali interessi del commercio di armi che vede protagonista il Nord ricco del mondo nel quale c’è anche l’Europa e c’è anche l’Italia.
Troppi sono poi gli interessi contrastanti dei Paesi ricchi, anche quelli europei, perché riescano a mettere in campo una politica internazionale unitaria di pace e sviluppo verso l’Africa e verso il Vicino Oriente.
Chiedere una politica unitaria e umana dell’Europa sulla questione profughi senza chiedere una politica unitaria e umana, non di sfruttamento o neo-colonialismo, della stessa Europa verso l’Africa e il Vicino Oriente sarebbe ipocrita. Ma se i particolari interessi neocoloniali finiscono per prevalere, di che Europa parliamo?
Disuguaglianze, povertà, giovani privati del futuro
Questa politica unitaria e umanamente giusta dell’Europa dovrebbe farsi vedere di fronte a un’altra e fondamentale causa delle migrazioni forzata: le diseguaglianze sociali ed economiche, la povertà, la fame, la mancanza di futuro per tanti giovani.
I dati dell’Onu ci parlano di una realtà in netto miglioramento nel mondo e il 2015 ha registrato un dimezzamento rispetto al 1990 delle persone che vivono in povertà estrema: da 1,9 miliardi a 836 milioni.
Di questi ultimi, una gran parte vive nell’Africa sub-sahariana da dove partono i migranti in cerca di una vita migliore e dove si registra ancora un tasso di denutrizione molto elevato, del 32,2%.
Nello stesso periodo, 1990- 2015, la mortalità infantile nel mondo è scesa da 12,7 milioni di bambini all’anno a 5,9.
Un grande passo in avanti, ma ancora 16 mila bambini sotto i cinque anni muoiono ogni giorno.
In Angola, ad esempio, su 1.000 bambini ne muoiono ancora 254 sotto i cinque anni. Una strage quotidiana.
O si costruisce un mondo più giusto, o come si può pensare di fermare coloro che cercano di fuggire dalla povertà per andare là dove c’è benessere?
I Paesi ricchi pensano di poter andare avanti impunemente con i loro privilegi e i loro sprechi senza pensare che i poveri non vogliano venire a prendersi la loro parte, per quanto piccola, di felicità?
Nessun muro riuscirà a fermarli, inutile illudersi. Hanno deciso in tanti di non stare lì ad aspettare ciò che non arriverà mai. «Meglio affogare nell’oceano che essere strangolati dalla miseria» recitava il Canto degli emigranti italiani e tedeschi di fine Ottocento. Oggi come allora:
«Meglio morire a modo nostro che essere peggio delle bestie».
Clima e disastri ambientali
Anche i disastri naturali sono all’origine delle migrazioni forzate di milioni di persone, soprattutto in Asia, ma anche in Africa, disastri non sempre inevitabili, ma spesso legati alle modificazioni del clima e agli interventi dissennati dell’uomo.
Se continua l’innalzamento degli oceani, il Bangladesh avrà alla fine del secolo 35 milioni di rifugiati, secondo quanto scrive monsignor Perego nel libro prima citato. E le drammatiche condizioni e prospettive del clima sono principalmente il risultato dell’irresponsabilità dei Paesi più ricchi del mondo.
Siamo in attesa di cosa produrrà la conferenza mondiale di Parigi sul clima. Ne verrà fuori qualcosa all’altezza dell’urgenza e della drammaticità della questione?
Se dunque guardiamo alle cause principali dell’imponente fenomeno dei rifugiati che scuote quotidianamente il nostro mondo, ci accorgiamo che in esse la responsabilità dell’Europa, dell’Occidente, dei Paesi ricchi del Nord del mondo sono gravi.
E anche per questo, come si può immaginare di rispondere coi muri – fisici, legislativi o militari – a queste persone in fuga quando noi stessi siamo tra le cause della loro fuga?
III.
CONOSCERSI, RICONOSCERSI, COSTRUIRE COMUNITÀ
Una presenza consolidata, non un’emergenza
Infine, terza e ultima questione: come ci dobbiamo porre di fronte al meticciato di civiltà e culture che è un dato di fatto?
Posta così, la domanda contiene già una parte della risposta. Perché il meticciato di civiltà e culture nel nostro Paese non è qualcosa da accettare o rifiutare, ma è un dato di fatto.
L’Italia alla fine del 2014 contava 5.014.000 di stranieri residenti, l’8,2% della popolazione, con un aumento di 92 mila unità rispetto all’anno precedente. L’aumento più basso da molti anni a questa parte. Il flusso di stranieri è in calo, altro che invasione.
La percezione dell’invasione, cavalcata dalla propaganda politica, è infondata.
In alcune regioni italiane, come il Trentino-Alto Adige, gli stranieri sono diminuiti. La crisi economica non rende molto appetibile il nostro Paese.
Quindi non c’è una emergenza accoglienza di stranieri rispetto a una situazione ormai consolidata.
Più della metà sono cristiani
La metà di essi (2,6 milioni) proviene da un Paese europeo, di cui 1 milione e mezzo da un paese dell’Unione Europea. Rispetto alle nazionalità, i più numerosi sono i romeni, gli albanesi, i marocchini, i cinesi, gli ucraini.
I cristiani sono 2 milioni e 700 mila (di cui un milione e 459 mila ortodossi e 900 mila cattolici), i musulmani un milione e 600 mila, gli induisti 141 mila, i buddisti 99 mila.
Bambini nati in Italia ma non riconosciuti come italiani
Va poi ricordato che sono circa 800 mila gli alunni stranieri in Italia. «Stranieri» non sempre a proposito, perché molti di loro sono nati in Italia. Ad esempio, sono nati in Italia quasi il 90% dei bambini stranieri iscritti alle scuole dell’infanzia.
La scuola è la colonna portante di questa società fatta di diversità, e va sostenuta di più su questo punto, perché troppi giovani migranti non completano gli studi. Questa comunità di stranieri in mezzo a noi va innanzitutto conosciuta e riconosciuta.
L’attesa approvazione definitiva da parte del parlamento italiano, dopo il voto favorevole in ottobre da parte della Camera, dello ius soli, che riconosce finalmente la cittadinanza italiana ai figli di stranieri nati qui, temperato dallo ius culturae, che riconosce la cittadinanza italiana ai minori di dodici anni non nati qui ma che hanno completato un corso di studi di almeno cinque anni, farà fare un grande passo in avanti alla qualità dell’accoglienza e della convivenza nel nostro Paese.
Ma altri diritti di cittadinanza chiedono di essere riconosciuti agli immigrati. Perché siano anche più consapevoli dei loro doveri verso la nuova comunità che li ha accolti. Diritti e doveri vanno di pari passo.
Costruire comunità nel rispetto delle differenze
C’è un continuo sforzo di conoscenza reciproca da fare. Culture, religioni, modi di vita diversi devono imparare a conoscersi, a rispettarsi, a convivere.
Dobbiamo costruire comunità unite nel rispetto delle differenze. Impedire le ghettizzazioni, imparare dagli errori di quelle società che hanno una storia di meticciato più antica della nostra.
Sono questioni complesse che richiedono uno sforzo più ampio e consapevole di quanto non avvenga.
Bisogna rendersi conto definitivamente che siamo di fronte a un dato strutturale, a un fenomeno destinato a crescere, al di là delle oscillazioni momentanee. E che va affrontato al meglio, non facendo finta di non vederlo.
Salvano il nostro futuro
Le nostre società sono sempre più vecchie, con tante culle vuote e tanti ultra ottantacinquenni.
L’Italia è il Paese più vecchio d’Europa, perché si vive di più, ma anche perché si nasce di meno. Nel 2014 ci sono state solo 509 mila nascite («mai così poche dall’Unità d’Italia», ha titolato il «Corriere della sera» il 13 febbraio 2015).
«A livello europeo, dove un quarto della popolazione ha già più di sessant’anni, nel 2050 il numero dei decessi sarà superiore a quello delle nascite di 32 milioni, per cui nei prossimi anni solo l’immigrazione potrà svolgere un ruolo equilibratore del bilancio della popolazione» (da «Dossier Immigrazione 2015», p. 19, pubblicato nell’ottobre 2015 da Idos in collaborazione con la rivista «Confronti», che riporta dati del World Population Prospects. 2015 Revision).
Conoscersi, riconoscersi, costruire comunità unite che rispettano le diversità. Non sono processi naturali, spontanei. Richiedono volontà, competenza, pazienza. Occorrono persone e luoghi d’incontro che costruiscano conoscenza e convivenza. Che smontino paure, abbattano barriere.
Che credano, anche, che se c’è questa varietà e diversità degli esseri umani una ragione positiva ci sarà.
Che la convivenza non è una maledizione da sopportare perché non se ne può fare a meno.
Che forse essa è qualcosa di provvidenziale, non solo perché ci salva la pensione, ma perché salva noi stessi, impedisce la nostra decadenza, riapre i giochi del futuro.
16 novembre 2015. Pubblicato sulla rivista «Il Margine», n. 9, 2015