Ringrazio gli organizzatori di questo convegno per aver voluto ricordare Giovanni Gozzer, un personaggio così rilevante nella storia della scuola trentina e della scuola nazionale, e per aver voluto avviare un percorso di ricerca che possa pienamente documentarne la complessa figura e la vastissima opera.
Relazione presentata al seminario di studi “Giovanni Gozzer a 100 anni dalla nascita” promosso dalla Provincia autonoma di Trento. Soprintendenza per i Beni culturali. Ufficio Beni archivistici, librari e Archivio provinciale, Trento, 3 dicembre 2015.
Testimonianza di uno studente
La mia è innanzitutto la testimonianza di chi, studente dell’Istituto Magistrale “Fabio Filzi” di Rovereto, verso la fine degli anni’60 e i primi anni ’70 incontrò Giovanni Gozzer leggendo gli articoli che scriveva su “Settegiorni”, un settimanale della sinistra cattolica nato all’indomani del Concilio Vaticano II, promosso da Carlo Donat Cattin, esponente di punta della sinistra Dc, e aperto all’area socialista, laica, comunista, della nuova sinistra.Una voce critica, autorevole, trasversale, indipendente, con un ampio sguardo sulla realtà internazionale (pubblicava i servizi de “Le nouvel Observateur” di Parigi).
Anni vivaci, creativi, caldi, caldissimi quelli, anche per la scuola.
Su questo settimanale, che aveva lo spessore culturale di un mensile, Gozzer tenne puntualmente per quattro anni, dal 1967, anno di inizio delle pubblicazioni del periodico, fino al numero 227 del 17 ottobre 1971, quando decise di concludere la sua collaborazione (“Settegiorni” avrebbe cessato le pubblicazioni nel 1974), una rubrica dedicata ai temi della scuola intitolata “Mezzi e processi”.
Uomo delle istituzioni e del cambiamento
Proprio nel momento del commiato, Gozzer descriveva così la sua rubrica:
Questa rubrica, nel suo titolo volutamente non facile e non comodo, ha voluto essere di provocazione e di rottura di molti schemi accomodanti, un tentativo di individuare le dimensioni del fenomeno formativo più che nel solco dell’istituzione nel quadro delle situazioni nuove, seguendo la genesi del processo di apprendimento (come fatto psico-biologico), e degli strumenti (i media o mezzi) che consentono la trasmissione e l’estensione delle conoscenze
(G. Gozzer, “Congedo: una fase di riflessione”, in “Settegiorni in Italia e nel mondo”, anno V, n. 227, 17 ottobre 1971).
In queste poche righe possiamo trovare il tratto fondamentale e del tutto originale di Giovanni Gozzer: da sempre uomo delle istituzioni (insegnante, dirigente scolastico, alto dirigente del Ministero della pubblica istruzione), ma da sempre anche uomo del cambiamento, continuamente proteso a innovare, a cercare ovunque – negli istituti di ricerca più qualificati a livello internazionale, nelle nuove tecnologie, nella più recente pubblicistica scientifica, nella società, nei nuovi movimenti che irrompevano e facevano saltare antichi equilibri, nelle periferie urbane o montane, in esperienze famose o poco note, in Europa o negli Stati Uniti o nell’America Latina in ebollizione -, segnali di creatività, di capacità della scuola di cambiare, di rispondere positivamente a un mondo in radicale mutamento.
Un liberaldemocratico appassionato della giustizia sociale
Un grande burocrate dello Stato insofferente della burocrazia, questi era Giovanni Gozzer.
Un dirigente ministeriale che coltivava il gusto della provocazione intellettuale e della rottura degli schemi consolidati.
Un esperto di legislazione scolastica che amava più lo spirito della legge.
Un riformatore che più che alle grandi riforme dall’alto, che pure costantemente cercò di promuovere e di attuare, credeva soprattutto nella necessità degli insegnanti di rinnovarsi, delle singole scuole di sperimentare nuove strade, dei dirigenti scolastici di farsi promotori dell’innovazione.
Un uomo libero e che credeva nella forza della libertà.
Un liberaldemocratico fortemente ancorato, però, alla dimensione sociale, egualitaria, tipica del suo essere un cattolico insofferente delle ideologie ma fortemente sensibile ai temi della giustizia sociale, delle classi più povere, di coloro che nella società e nella scuola partono da situazioni di disuguaglianza e di svantaggio.
Spirito indipendente
Pur nella sua fisionomia di cattolico liberale e democratico, Gozzer è sempre stato uno spirito indipendente, che non stava dentro i canoni intellettuali e politici del tempo, spesso rigidi e implacabilmente contrapposti, anche se sapeva essere di parte, talvolta amava essere di parte, e non sempre dalla sua parte.
A me piaceva per questo, soprattutto per questa sua indipendenza, che era tutt’altro che indifferenza rispetto ai confronti e ai conflitti ideologici di quella stagione, anche se spesso capivo poco certi suoi articoli di “Settegiorni”, piuttosto impegnativi per uno studente che si stava affacciando a quel mondo e a quei livelli di riflessione.
La scuola deve correggere le diseguaglianze di partenza,
come vuole la Costituzione
Anche noi più giovani e sprovveduti potevano comunque cogliere sempre quel suo tratto fondamentale: la scuola, per Gozzer, doveva “correggere” le disuguaglianze di partenza, non ratificarla. In questo, Gozzer era sulla stessa lunghezza d’onda della Lettera a una professoressa di don Lorenzo Milani, testo che anche lui come noi amava molto e spesso citava, ma anche dei movimenti degli ultimi anni ’60 di cui però non mancò mai di criticare duramente le derive assembleariste e ancor più quelle violente.
Gozzer spiegò bene in un convegno sui distretti scolastici organizzato nel 1972 da Palo Prodi, che dirigeva l’Ufficio Studi e programmazione del Ministero della Pubblica Istruzione (Ufficio in precedenza diretto per diversi anni dallo stesso Gozzer), il suo approccio alla questione scolastica, un approccio “costituzionale” che rappresentava anche quella base comune che dava una direzione unitaria fondamentale a tante diverse visioni:
Esiste un’ideologia di fondo dei nostri modi di concepire il sistema formativo; questa ideologia – e la chiamo così perché non saprei altrimenti come chiamarla – è costituita da un atteggiamento comune condiviso, o sul quale c’è perlomeno una larga possibilità di consensi, che considera il sistema formativo come strumento di promozione individuale piuttosto che come forma di garanzia sociale, in termini selettivi.
Così, dopo il 1945, e, in particolare, dopo l’entrata in vigore del testo Costituzionale, l’intervento formativo è stato considerato come uno dei cardini di quel concetto di promozione umana che è un po’ la trama di fondo dell’intero testo Costituzionale.
Così, quando ci si è mossi verso spinte ampliative di tutto l’arco dell’istruzione, o quando si è impostato il principio del ‘diritto all’istruzione’, come garanzia di formazione nei confronti di ogni individuo e indipendentemente dalle sue condizioni sociali e dall’ambiente di provenienza; o quando si è dato corpo al principio del ‘diritto allo studio’ abbiamo cercato di attuarlo attraverso una serie di interventi di supporto (sotto forma di assistenza scolastica, borse di studio, libri di testo, doposcuola, ecc.).
Ci si muoveva sull’onda dello sforzo di tutta la società italiana per assolvere la premessa costituzionale del diritto della persona al suo sviluppo umano e sociale.
(Ministero della Pubblica Istruzione. Ufficio Studi e Programmazione, Il distretto scolastico, Frascati 1972, p. 189).
La “Lettera a una professoressa” e la lettera a un preside
Nei primi anni ’70, a un esame di pedagogia all’Università di Bologna, portai, tra le letture facoltative, insieme alla Lettera a una professoressa anche un libro di Gozzer, Gentile preside (Editrice Esperienze, Fossano 1972, pp. 143).
Era la sua versione della Lettera a una professoressa di don Milani e della Scuola di Barbiana, che, fra l’altro, veniva più volte richiamata nel libro.
Gentile preside era una specie di appassionato e polemico bilancio dell’esperienza della scuola media unica, nata un decennio prima, e vista dal punto di vista di un genitore, ma, ovviamente, di un genitore speciale, un grande esperto di scuola, qual era l’autore, che a quel grado di scuola aveva dedicato le sue migliori energie.
Un bilancio che avveniva proprio nel momento in cui Gozzer si congedava dal Ministero della pubblica istruzione, nel quale aveva operato ad alti livelli per più di un ventennio, e in un momento, i primi anni ’70, in cui le speranze di cambiamento degli anni ’60 avevano preso pieghe ben diverse.
Rivoluzione senza violenza
Ebbene, se qualcuno oggi volesse cercare di capire che fu Giovanni Gozzer leggendo un solo dei suoi tanti libri, io mi permetterei di suggerirgli proprio questo appassionato pamphlet.
Un libro che rivela tutta la sua statura di uomo e di uomo di scuola, il suo viscerale amore per chi vive nella scuola e soprattutto per quelli di cui la scuola dovrebbe più preoccuparsi: gli alunni, gli studenti.
Già la dedica in apertura era più che mai eloquente:
Allo studente liceale romano che
avendo espresso in una trasmissione televisiva
il 4 novembre 1971
la sua personale opinione
sull’ignoranza dei professori
ha suscitato l’ondata di proteste
della corporazione pedagogica degli insegnanti
alla quale è sfuggita una fortunata occasione
per rendersi conto del fatto
che, diversamente da Socrate,
molti dei suoi membri
non sanno di non sapere.
Gozzer organizzava quindi il suo bilancio in quattro “lettere”, corrispondenti ad altrettanti anni scolastici:
Lettera prima (1967-68): Per chi è fatta la scuola media?
Lettera seconda (1968-69): Bocciare o promuovere?
Lettera terza (1969-70): Le scelte consapevoli
Lettera quarta (1970-71): Qualche cosa bisogna fare
Il titolo della “premessa” ben spiegava il senso complessivo del ragionamento di Gozzer: “Rivoluzione senza violenza”. La scuola aveva ancora bisogno di una rivoluzione, ma non di quella violenta e confusionaria degli
“agitatori estremisti che del sistema educativo non salvano niente e vogliono solo trovare occasioni per farlo esplodere, senza peraltro offrire alternative” (p. 11).
Quello che al “rivoluzionario” Gozzer premeva era che
l’azione convulsa e confusa dei contestatori ci ha fatto assistere al rafforzamento dei reazionari, alla riabilitazione di quei presunti custodi della legge e dell’ordine, che sono solo dei retori e dei passatisti ma a cui è stata invece data un’aureola di sacrificio e di martirio
(p. 8).
La scuola deve ‘promuovere’
In un bellissimo passaggio del libro, che vale la pena riprendere integralmente, Gozzer riproponeva così quello che doveva essere il senso della scuola media, che era stato anche il senso di tutta la sua vita di uomo di scuola con la sua visione profondamente “Costituzionale” del ruolo dell’istituzione scolastica:
Il ‘Comandamento’ di don Milani sarebbe stato più facilmente capito se, invece di dire che questa scuola non deve bocciare, con ciò stesso facendo sembrare che ‘si mandino avanti anche gli asini’, si dicesse invece che questa scuola deve ‘promuovere’.
E promuovere non significa passare di classe, avere la media del sei o sgattaiolare alla riparazione.
Una scuola che ‘promuove’è una scuola che stimola, che apre e sviluppa l’intelligenza, che spinge a fare, a immaginare e a creare, che insegna ad esprimersi, che aiuta ad essere liberi e responsabili, che dà seri parametri morali, che abitua alla vita sociale.
Preoccupandosi di promuovere l’intelligenza, capacità, attitudini, possibilità, interessi, partecipazione, crescita, sviluppo, una scuola di questo tipo non si dà cura invece di soppesare col bilancino del farmacista ogni atto, ogni risposta, ogni proposito; e tanto meno di considerare un singolo fatto occasionale come una specie di rito solenne da mettere a verbale: sa che ogni processo di promozione è un andare e venire, un provare e riprovare, uno sbagliare e correggere; e che ciò che è importante è l’essere dentro a questo processo di crescita con il massimo dell’impegno e della volontà: e tutto questo non in astratto, con la i e con la v maiuscole (Impegno e Volontà, Labor ac Virtus) ma in concreto, in rapporto alle condizioni individuali, a quelle ambientali, alle miserie o alle comodità di ciascun ragazzo; e anche in rapporto all’altra crescita, quella fisica, piena di problemi e di adattamenti faticosi, di sentimenti che albeggiano, di personalità che si autoidentificano, di opposizione, di differenziazione e di affermazione, di rapporti col gruppo e di tante altre cose ancora.
Promuovere significa mandare avanti, far crescere; ed è ciò che dovrebbero fare gli autori, e cioè la famiglia e gli insegnanti; che sono auctores perché aumentano, e che sono auctoritas perché fanno crescere, e non perché ti dicono somaro e ti mandano via
(pp. 56-57).
Non ancora del tutto integrato
In questa stupenda pagina c’è tutto il “credo” pedagogico di Giovanni Gozzer, un credo più vivo e attuale che mai, e che aveva,in quei turbolenti anni, anche la forza concettuale e linguistica di appassionare un giovane, per nulla appassionato invece allo studio della consueta e noiosissima pedagogia.
Il singolare anticonformismo di Gozzer si rivelava subito al lettore che prendeva in mano Gentile preside fin dalla quarta di copertina, dove non poteva passare inosservato il profilo (auto)biografico dell’autore:
Giovanni Gozzer. Dall’insegnamento è passato allo studio dei problemi organizzativi scolastici e successivamente alle attività di assistenza tecnica nel Terzo mondo; per piombare finalmente nella ricerca sulle tecnologie educative. Ha ricoperto velleitariamente qualche incarico amministrativo pubblico, con risultati di cui spera ottenere benevola assoluzione. Ha scritto libri e articoli in numero probabilmente superiore all’utile e al necessario, assumendosi volentieri il ruolo di rompiscatole. Tra i libri tiene a ricordare “Scuola Ponte” (1949), in cui si delinea la nuova scuola media unica quindici anni prima della riforma; “I Cattolici e la Scuola” (1963), “Religione e Rivoluzione in America Latina” (1968). Nato nel Trentino (1915) da famiglia originaria della Valsugana, di remota ascendenza ‘mochena’ e, per tale origine, minoritaria, strutturalmente inconforme. Non ancora del tutto integrato, si avvia alla carriera di rudere.
Colpisce, anche, la scelta di Gozzer di citare proprio quei tre libri tra i tanti da lui pubblicati, e soprattutto il terzo, sul quale tornerò a conclusione del mio intervento, perché voleva proprio dire che l’autore, malgrado le amarezze e le delusioni per le derive che avevano preso tante speranze di cambiamento degli anni ’60, non aveva rinnegato quelle speranze, a partire da quelle del Concilio Vaticano II e della Pacem in terris di papa Giovanni XXIII che avevano animato tanti movimenti religiosi, sociali, studenteschi in America Latina, prima che si manifestassero in Europa e in America del Nord.
Ma il singolare profilo (auto)biografico di Gozzer in Gentile preside ci suggerisce, a questo punto, di ripercorrere i tratti fondamentali della sua vita che riprendiamo dalla notevolissima intervista da lui rilasciata a Paolo Tessadri per il numero monografico che a Gozzer dedicò la rivista della scuola trentina “Didascalie” (Anno VI, n. 2, dicembre 1997).
Le tappe di una vita
Nato il 20 settembre 1915 a Bronzolo, in piena guerra mondiale, dove la famiglia era sfollata, Gozzer si diplomerà prima all’Istituto magistrale “Fabio Filzi” di Rovereto e poi al liceo “Giovanni Prati” di Trento: due maturità.
Per tre anni fa l’insegnate supplente in una scuola elementare di Rovereto e contemporaneamente si iscrive all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano dove, nel 1938, si laurea con una tesi sul concetto di storia. L’anno seguente è docente di italiano e latino al Liceo “Prati”, dove conserverà la cattedra di ruolo fino al 1945.
La guerra e i Centri scolastici
Negli ultimi anni della guerra il giovane prof. Gozzer dà vita a una nuova esperienza di scuola destinata a lasciare il segno.
Con il bombardamento della città di Trento del 2 settembre 1943, la riapertura delle scuole dopo le vacanze estive diventa improponibile. Gozzer fa una proposta al provveditore agli studi Molina (ben presto sostituito in quel ruolo dal prof. Morelli, preside del liceo scientifico Galilei): essendo impensabile riaprire le scuole non solo nel capoluogo, ma anche a Rovereto e Riva del Garda, creiamo delle sezioni staccate di scuole medie inferiori e superiori nelle valli trentine unite in “centri scolastici”.
La proposta è accolta. Essa nasce in un contesto in cui, dopo l’8 settembre, le province di Trento, Bolzano e Belluno vengono inglobate nel Terzo Reich e staccate, almeno in parte, dalla Repubblica Sociale di Salò.
Le tre province vanno a formare l’Alpenvorland, la Zona di Operazioni delle Prealpi, dove l’autorità politica è rappresentata dal Gauleiter Hofer e dal prefetto De Bertolini.
Una situazione politico-militare del tutto particolare, dentro la quale la genialità di Gozzer riesce a ritagliare uno spazio di autonomia all’attività della scuola. E dentro questa autonomia Gozzer sperimenta l’innovazione, fa di necessità virtù.
Ecco come Gozzer descrive, nella citata intervista rilasciata a Tessadri per “Didascalie”, quell’esperimento:
Nei ‘Centri scolastici’ riunivamo alunni di scuole diverse (avviamento, media, classico, scientifico, magistrale, tecnico). In fondo era, a suo modo, un’anticipazione del sistema unitario.
Poiché ogni istituto aveva alcune materie comuni (sia pure con programmi non sempre identici), gli studenti, classe per classe, avevano in comune le lezioni a materie comuni, separatamente quelle delle discipline specifiche di ogni singolo tipo di istituto. Ci si adattava alle situazioni, ma allo stesso tempo si inventavano quelle innovazioni che poi richiesero anni ed anni per entrare nei nostri sistemi scolastici. Non sono unità e uniformità che garantiscono una buona scuola
(pp. 2-3).
“Un’esperienza didattica eccezionale” e la Resistenza
Inventano una Sovrintendenza scolastica per queste scuole e una tipologia organizzativa che lo stesso Gozzer definisce “acrobatica”. Sarà la prima di altre “acrobazie” che Gozzer attuerà negli anni seguenti per aggirare gli ostacoli e fare quello che intendeva fare.
Gozzer è chiamato a svolgere la propria attività presso il Centro scolastico di Borgo in Valsugana, con sedi prima a Castelnuovo poi a Telve, diretto dal prof. Umberto Corsini, e contemporaneamente svolge il ruolo di coordinatore dei Centri scolastici e di vice-provveditore.
“Un’esperienza didattica eccezionale”
la definì Gozzer (sulla storia e le importanti innovazioni pedagogico-didattiche di questi Centri scolastici si veda il bel saggio di Lia De Finis, “Le scuole di vallata”, pubblicato nel citato numero monografico dedicato a Gozzer dalla rivista “Didascalie”).
Questa possibilità di muoversi nel territorio provinciale gli consente anche di svolgere un certo ruolo di collegamento nel movimento di Resistenza. Subì due volte l’arresto, ma riuscì sempre a cavarsela.
La scuola professionale trentina
E proprio per questo ruolo avuto nella Resistenza viene nominato nel 1945 presidente del CLN di Trento e quindi Provveditore agli Studi, carica che ricopre dal ’45 al ’46.
In quel breve periodo, il giovane Provveditore diede vita ad altre due importantissime innovazioni: l’innalzamento della durata dell’obbligo scolastico di otto anni al posto dei cinque previsti dalla legge italiana e la creazione della “Scuola professionale trentina”: “un esperimento fuori dell’ordinario”, lo definì Gozzer, che ci teneva a ribadire che
la scuola postelementare è la vera scuola formativa del nostro popolo, in quanto lo prepara direttamente alla vita e alla professione.
(cfr. G. Faustini, “La scuola professionale trentina del dopoguerra”, sempre nel citato numero di “Didascalie” dedicato a Gozzer).
L’amministrazione scolastica nomina un nuovo Provveditore e Gozzer deve tornare ad insegnare.
Ad Asolo la prima scuola media sperimentale
Ma accettò l’invito di monsignor Erminio Filippin, fondatore di diverse scuole nei paesi alle falde del Grappa, di andare a dirigere la scuola media di Asolo (Treviso) da poco aperta.
E qui ad Asolo Gozzer diede vita alla prima scuola media sperimentale:
per la prima volta si parlava di sperimentazione nella scuola, cosa che non tanto nel fascismo ma nella cultura laica, crociana e gentiliana, era qualcosa come la blasfemia
il progetto che, pur durato soltanto un anno scolastico, più gli dette soddisfazioni e che descrisse, ad esperienza conclusa, nel 1948 nel libro La scuola ponte (Trento, Arti Grafiche Saturnia).
Ad Asolo Gozzer cercò di attuare nel contesto italiano talune sperimentazioni didattiche del noto pedagogista americano Washburne che in quegli anni era il responsabile per conto degli Alleati della riorganizzazione del sistema scolastico italiano e che lui aveva incontrato e conosciuto.
Washbrune aveva dato vita a Winnetka, nell’Illinois, a scuole medie ed elementari famose in tutto il mondo per le loro sperimentazioni rivoluzionarie, dall’assenza di registri di voti e interrogazioni al superamento della rigida suddivisione in classi, secondo metodi individualizzati che però insieme sviluppavano la socialità, la comunità.
Una scuola impregnata di quella concezione democratica della cultura e della scuola tipicamente americana che l’Italia non conosceva.
Anche ad Asolo Gozzer tolse registri di voti e interrogazioni.
Una scuola che non esclude nessuno, non per le élites
Ma, senza ora entrare nel dettaglio delle innovazioni, che andavano ben al di là dei voti e delle interrogazioni, quello che mi preme oggi ricordare è il significato di quell’esperienza, perché testimonia come quel “credo” pedagogico che in maniera così efficace e appassionante Gozzer consegnò alle sopra citate pagine di Gentile preside a conclusione di carriera nel 1972, è lo stesso che 27 anni prima animava quella sua rivoluzionaria sperimentazione di Asolo.
Scriveva in La scuola ponte nel 1948:
Quella che oggi, penso, si deve rinnovare è innanzitutto la ‘concezione’ stessa della scuola: di qui bisogna partire. Si è creduto fino a ieri, ed oggi ancora gli insegnanti vivono di questa opinione, che la scuola fosse una specie di mezzo selettivo per preparare ‘le classi dirigenti’.
Compito della scuola quindi quello di escludere o promuovere, in base a determinate attitudini (latino, greco ecc.).
Essa ignorava il problema dell’escluso, limitandosi a dare ai cosiddetti migliori la possibilità di proseguire nel loro cammino di studi [non sembra di leggere certi passi della Lettera a una professoressa di vent’anni dopo?].
Sacrificare in definitiva le necessità della massa in funzione di quella ‘élites’ sul cui metro e sulle cui capacità si svolgeva l’attività della scuola.
Oggi tale concezione, anche se ancora gli insegnanti non se ne rendono conto, va profondamente mutata: la scuola non separa i più intelligenti dai meno intelligenti, non prepara le élites, come ancora dice taluno.
Essa è lo strumento con cui la società valuta le attitudini e le capacità individuali e, di conseguenza, essa aiuta ciascuno a raggiungere quel punto, a porsi in quel luogo in cui tali attitudini si esplicheranno meglio, nel duplice interesse dell’individuo e della collettività.
Non buoni e tristi, promossi o bocciati, ma alunni che seguono un’attività, un indirizzo, alunni che seguono altre attività, altri indirizzi.
È forse, quella d’oggi, l’aurora della vera scuola: quella sognata dai precursori lontani: la scuola che educa, prepara e guida alla formazione dell’uomo: non ‘uomo’ in astratto, ma uomini concreti e reali: la scuola che non esclude nessuno, che a nessuno è matrigna. La scuola in altri termini che sia alla società quello che all’individuo è la famiglia.
(pp. 19-20).
Da Asolo a Ginevra con Piaget, da Ginevra a Roma
Nel settembre del 1947, però, proprio il prof. Washburne gli propone un anno sabbatico a Ginevra, con altri nove colleghi italiani, per seguire i corsi di Piaget, il grande psicologo e pedagogista.
Accetta e lascia Asolo, con l’idea di tornarvi.
Quel breve ma intenso periodo a Ginevra aprì a Gozzer quello sguardo internazionale sul mondo della scuola e gli inoculò quella passione per la comparazione dei sistemi scolastici che fu un’altra sua caratteristica e competenza, piuttosto rare nel contesto italiano, e di cui ci restano tanti suoi libri e ricerche.
Ma nel febbraio del 1948, durante un convegno sulla scuola a Rovereto, incontrò il ministro dell’istruzione Gonella che lo volle a Roma per seguire l’inchiesta nazionale sulla scuola.
Gozzer accettò, si accomiatò da Washbrune, da Ginevra e da Piaget e si trasferì “provvisoriamente” a Roma, dove invece sarebbe rimasto per il resto della sua vita.
Al Ministero
Gozzer sarà tra i più qualificati esperti del Ministero per un quarto di secolo, svolgendo diversi ruoli, sempre ad altissimo livello.
Erano anni di grandi scontri ideologici intorno alla scuola, soprattutto tra cattolici e sinistre, anche se con la stagione del centrosinistra le cose almeno in parte cambiarono.
E Gozzer non si sottraeva quand’era necessario al dibattito e alla polemica, anche se non era in prima fila.
Talvolta non nascondeva il disaccordo con il ministro in carica, da spirito indipendente e schietto qual era, pur essendo una punta di diamante del mondo cattolico, anche democristiano, e ciò non gli rese certamente la vita tranquilla.
Furono anche gli anni, i primi ’60, del varo della scuola media unica, ma non fu la scuola media che Gozzer aveva in testa, da sempre. Lo ribadirà in più di un’occasione, anche a Tessadri nell’intervista di “Didascalie”, con una certa amarezza, anche se fece di tutto, nel suo ruolo, perché potesse funzionare al meglio. Anche se, diceva, non poteva funzionare…
Il vulcanico Centro Europeo di Frascati
Dentro la molteplice e ricchissima attività di esperto e dirigente del Ministero, Gozzer trovò lo spazio, da uomo delle realizzazioni concrete quale era rimasto, per dar vita a una nuova, sorprendente “creatura”: il Centro Europeo dell’Educazione di Frascati, situato nella Villa Falconieri. Gozzer lo diresse dal 1960 al 1972 e lo fece diventare uno dei luoghi più qualificati di riflessione, ricerca e confronto in campo pedagogico e didattico a livello europeo.
Questo il dettagliato bilancio che della direzione di Gozzer del Centro di Frascati fa Antonio Sassone nel volume Villa Falconieri. Dalla borghesia nobiliare alla periferia del sapere. Vol. II: Effetto Tantalo. La politica nella ricerca educativa (Roma, Armando 2002, p. 48):
Nei suoi 12 anni di vita, il Centro Europeo dell’Educazione di Gozzer, nonostante la scarsità di risorse finanziarie (in media meno di 70 milioni di lire annue) e l’esiguità numerica del personale in dotazione (da un minimo di 4 a un massimo di 20 tra insegnanti ‘comandati’, personale ausiliario e tecnici assunti per contratto temporaneo) ha svolto una mole relativamente enorme di attività: ha realizzato come risulta dalla tabella n. 8.352 iniziative distribuite tra corsi di aggiornamento, seminari di studio, incontri di vario tipo.
Di tali iniziative 158 sono state realizzate autonomamente, 111 in collaborazione con altri organismi, 83 hanno avuto carattere internazionale. Si registra in media, nel periodo 1959-1972, un corso di aggiornamento ogni 13 giorni, un convegno internazionale ogni 54 giorni.
Se si escludono dal calcolo i giorni festivi, si registra un corso ogni 10 giorni e un convegno internazionale ogni 43 giorni. I partecipanti ai corsi di aggiornamento sono stati nel complesso 16.844 soggetti appartenenti al personale docente, direttivo ed ispettivo.
La media dei partecipanti riferita ad ogni singolo corso si calcola a 48 soggetti. In circa 12 anni di attività, il CEE ha pubblicato 30 volumi (in media uno ogni sei mesi) che comprendono atti di seminari di studio nazionali e internazionali, relazioni di ricerche di enti italiani e di altri paesi europei ed extraeuropei, documenti di organismi internazionali (Unesco, Consiglio d’Europa ecc.).
L’America Latina, gli oppressi e la violenza
Ma c’è un altro capitolo della biografia di Gozzer che vorrei ricordare, anche perché non è molto noto.
Tra il maggio1965 e il novembre 1967 Gozzer è in missione, per un progetto in collaborazione con l’Unesco, in America Latina, in particolare in Colombia.
Di quella parentesi internazionale ci resta un suo splendido diario, soprattutto politico, che Gozzer pubblicò nel 1968 con il titolo Religione e rivoluzione in America Latina, presso l’editore Bompiani.
Al cuore del libro c’è la violenza politica che nasce dalle istanze di giustizia contro gli sfruttamenti e le dittature militari, e dentro questi fermenti di violenza c’è anche un pezzo di Chiesa cattolica, quello formato dai sacerdoti che decidono di scegliere la lotta armata per partecipare ai movimenti popolari di liberazione.
L’incontro con padre Camillo Torres
Lo sguardo di Gozzer è insieme quello del sociologo, che cerca di analizzare scientificamente le ragioni della violenza, le varie forme in cui si manifesta, e nello stesso tempo è quello del cattolico affascinato dai cercatori di giustizia come padre Camillo Torres, il prete guerrigliero.
Gozzer conosce personalmente Torres, lo incontra, è colpito dalla sua statura intellettuale e morale, ed è intimamente diviso tra il suo rifiuto profondo della violenza e quella scelta che ha qualcosa di inevitabile, di tragicamente eroico.
Gozzer vede il conflitto tra le due Chiese: quella tradizionale, legata al potere e alle sue fastose cerimonie, e quella che ascolta il grido dei poveri e si schiera dalla loro parte.
Gozzer è con questa seconda Chiesa.
E l’incontro con la madre di padre Camillo
Il diario testimonia questa lacerazione e la lacerazione interiore dell’autore che però conclude il diario nel novembre del 1967 andando a visitare a Bogotà la madre di Camillo Torres, che era stato ucciso dall’esercito nel febbraio dell’anno prima, dopo poche settimane da quando si era dato alla lotta armata:
È un dialogo tranquillo, sereno, che suscita una serie di ricordi e di vicende passate; le cicatrici profonde non si avvertono: non c’è, nel rievocare eventi e persone, nessun rancore, nessuno spirito di vendetta, nessun orgoglio. È un ricordare pacato, anche se si tratta di una madre a cui non è dato, ancor oggi, di riavere il cadavere del figlio (si tratta di un ‘segreto di stato’).
Doña Isabel, in questi giorni, si è rivolta al presidente Lleras, con una lettera nobilissima in cui chiede semplicemente di dare una tomba a suo figlio.
Parla di tutto questo, dei libri che si pubblicano su Camillo, dell’interesse che la sua figura suscita ovunque, in tono misurato, sereno, coraggioso, pieno di fede. ‘Devo essere forte,’ dice semplicemente, ‘devo vigilare perché non si spenga la fiamma che egli ha acceso’
(p. 242).
Ed è con queste parole della madre di Camillo Torres che si conclude il libro di Gozzer, quasi volessero essere anche le parole dell’autore.
Gozzer era anche questo.
La medaglia d’oro? No, grazie
Dal 1996 al 1997 ebbi la ventura di ricoprire l’incarico di assessore all’Istruzione della Provincia autonoma di Trento.
Fu un anno cruciale per il sistema scolastico trentino perché vide il passaggio degli insegnanti dallo Stato alla Provincia autonoma: la cosiddetta “provincializzazione” della scuola trentina.
Un passaggio delicato, complesso, a lungo anche contrastato da alcune forze politiche e da ampi settori del mondo della scuola.
Demmo vita al progetto scuola Dai muri alle persone dove cercammo di delineare quella che poteva essere la scuola trentina del domani, una scuola sì molto radicata nel territorio ma anche aperta al mondo.
Tra l’altro, alcuni dei relatori presenti a questo convegno erano parte di quella appassionante e difficile avventura: il prof. Dutto era il presidente dell’Iprase, Tessadri dirigeva “Didascalie”. E a dirigere l’Iprase c’era invece il prof. Ennio Draghiccio che è scomparso recentemente e che voglio qui ricordare con tanta stima e riconoscenza.
Ebbene, non potevo dimenticarmi di Giovanni Gozzer. E lo proposi per la “medaglia d’oro della scuola trentina”, che istituimmo in quella occasione, e con lui proposi il prof. Bruno Betta, altra grande figura di uomo di scuola.
Volevamo ricordare alla comunità trentina, nel momento in cui si assumeva nuove e rilevanti responsabilità nella organizzazione e nella gestione della scuola, quelle personalità che più meritavano di diventare un punto di riferimento per il nostro sistema scolastico “autonomo”.
Volevamo anche che la comunità esprimesse verso di loro la doverosa gratitudine, un sentimento non sempre coltivato nella pubblica amministrazione.
Il prof. Betta accettò il riconoscimento, Gozzer no. Non voleva riconoscimenti. Ci sentimmo al telefono, mi scrisse.
Tuttavia da quel suo rifiuto nacque in realtà la ripresa dei suoi rapporti con il Trentino, che aveva da tempo interrotto.
Nacque anche il numero monografico di “Didascalie” con la bellissima intervista che gli fece Tessadri.
Nacque anche una corrispondenza epistolare molto cordiale tra di noi che si protrasse fino alla sua morte: conservo con affetto le sue lettere e i suoi biglietti.
Vorrei concludere con una domanda: ma Giovanni Gozzer ha ancora qualcosa da dire alla scuola e alla società trentina o è solo materia di rievocazione storica, una importante biografia da ricostruire per le nostre memorie e i nostri archivi?
Io credo che la sua lezione sia ancora viva e più attuale e necessaria che mai, e ringraziando gli organizzatori di questo convegno mi auguro che altre iniziative vengano fatte per ricordarne e valorizzarne l’opera, perché più che mai oggi la nostra scuola ha bisogno di testimonianze creative e anticonformiste, solide e innovative, civilmente appassionate e scientificamente fondate, non burocratiche, imprigionate dalla legge, dalle norme, dalla burocrazia, ma animate dallo spirito come quella di Giovanni Gozzer.
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Gli atti del seminario di studi sono stati pubblicati nel volume Giovanni Gozzer a 100 anni dalla nascita. Atti del seminario di studi Trento, 3 dicembre 2015, a cura di Quinto Antonelli e Roberta G. Arcaini,Provincia autonoma di Trento. Soprintendenza per i Beni culturali. Ufficio Beni archivistici, librari e Archivio provinciale, Trento, 2016, pp. 211. Con testi di Tiziano Mellarini, Marcello Bonazza, Roberta G. Arcaini, Giuseppe Gozzer, Giuseppe Ferrandi, Quinto Antonelli, Paolo Prodi, Vincenzo Passerini, Paolo Tessadri, Mario G. Dutto, Livio Pranzelores.