“Vestiti di stracci in grandi greggi,noi, carichi di un incredibile dolore, ci recammo nella terra grande e lontana. Alcuni di noi affogarono davvero. Alcuni di noi morirono davvero di stenti. Ma per ogni dieci che morirono,un migliaio sopravvisse e tenne duro. Meglio affogare nell’oceano che essere strangolati dalla miseria. Meglio ingannarsi da sé, che essere ingannati dai lupi. Meglio morire a modo nostro che essere peggio delle bestie.”
Sono versi strazianti del Canto degli emigranti.
Sembra, ma non è un canto dei nostri giorni
Scorrono davanti ai nostri occhi immagini che ci sono diventate fin troppo familiari. I barconi dei profughi, i sommersi, i salvati, i cadaveri galleggianti o distesi sulla spiaggia, gli occhi stralunati o luminosi dei vivi, i loro saluti di vittoria, cioè di sopravvivenza, il carico gioioso di speranza che si portano e che ancora non ha fatto i conti con le nostre ostilità.
Eppure non è un canto dei nostri giorni.
Apparve su un giornale tedesco del 1880. L’italiano Ferdinando Fontana lo tradusse nella nostra lingua e l’anno dopo lo pubblicò su un giornale di New York (cfr. J. Mangione – B. Morreale, La storia. Cinque secoli di esperienza italo-americana, Sei, Torino 1996, p. XIX).
Un dolente frammento del grandioso esodo europeo verso le Americhe. Ma anche un dolente frammento del grandioso esodo dei nostri giorni. Grandioso, davvero, anche se il nostro sguardo è spesso limitato. Crediamo di essere, come europei, come italiani, i più coinvolti da questo esodo. Ma non è così. Dobbiamo allargare lo sguardo.
I migranti: la quinta nazione al mondo
Se osserviamo un atlante mondiale delle migrazioni vediamo un impressionante reticolo di frecce che copre l’intero globo, in tutte le direzioni (Atlante mondiale delle migrazioni, a cura di C. Wihtol de Wenden, Vallardi, Milano 2012).
Fiumi di persone si spostano, per volontà o per costrizione, da un continente all’altro, o all’interno del medesimo continente.
Sono ben 244 milioni le persone che vivono in un Paese dove non sono nate, secondo l’ultimo Rapporto internazionale delle Nazioni Unite sulle migrazioni presentato nel marzo di quest’anno.
Quella dei migranti è la quinta «nazione» al mondo per popolazione, e viene dopo Cina, India, Stati Uniti, Indonesia e prima di Brasile, Pakistan e Nigeria. Una nazione fatta di tutte le nazionalità e che copre l’intero globo.
Da quello stesso Paese, poi, in cui tanti stranieri sono approdati, tanti residenti se ne vanno. Come la popolosissima Cina, ad esempio, da cui tantissimi partono, ma dove tanti migranti arrivano.
Gli italiani tornano ad emigrare
Ma anche come il nostro Paese, dove gli italiani che nell’arco di un anno emigrano sono tornati ultimamente a essere più numerosi degli stranieri che arrivano, anche se non ce ne rendiamo conto, perché le uscite sono silenziose mentre gli arrivi sono per lo più clamorosi.
Nel 2014
i cittadini italiani residenti all’estero sono aumentati di 155 mila unità, attestandosi a quota 4.637.000, con un incremento superiore a quello dei cittadini stranieri residenti in Italia (5.014.000 a fine anno), per i quali l’aumento è stato solo di 92 mila unità
(Dossier statistico immigrazione 2015, Idos, p. 77).
Un via vai incessante, a ogni latitudine. Insieme gioioso e doloroso. Espressione di libertà, una libertà irrinunciabile per l’essere umano, ma anche di lacerazione, di strappo sanguinante dalla propria terra e dai propri affetti.
Le cause delle migrazioni
Povertà e diseguaglianze economiche, guerre e violenze, disastri ambientali, squilibri demografici e l’indistruttibile aspirazione a cercare altrove la piena realizzazione della propria vita: sono queste le cause che muovono questi fiumi di persone.
Il nostro è un mondo in cui il 48% della ricchezza globale è detenuto dall’1% della popolazione mondiale, dove un altro 46,% della ricchezza è posseduto dal 19% della popolazione, dove l’80% della popolazione del mondo possiede, quindi, soltanto il 5,5% della ricchezza mondiale (Rapporto Oxfam 2015 «Grandi diseguaglianze crescono», Oxford 2016). Ci può essere più scandalosa diseguaglianza di questa?
Se è vero che la situazione sul fronte della povertà e della mortalità infantile è migliorata in tante aree del pianeta, nell’Africa subsahariana e nell’Asia meridionale da dove partono milioni di migranti la situazione resta drammatica.
Pensiamo di fermarli con i muri i fuggiaschi dalla povertà, frutto di vergognose ingiustizie? «Meglio affogare nell’oceano che essere strangolati dalla miseria» (Canto degli emigranti).
Le nostre responsabilità
Dentro l’impressionante reticolo di migrazioni ci sono poi i profughi in fuga dalla guerra, dalle violenze terroristiche, dalle persecuzioni religiose, politiche, etniche, soprattutto nel Vicino Oriente e ancora nell’Africa subsahariana.
Ad alimentare il tutto c’è il crescente traffico di armi prodotte dai Paesi ricchi del Nord, americani, europei, russi e cinesi in testa. Compresa l’Italia, ottavo produttore al mondo, che ha triplicato in un anno il proprio commercio, passato da 2,9 miliardi di euro del 2014 agli 8,2 miliardi di euro del 2015. Molte di queste armi sono finite nel Vicino Oriente e in Africa.
Si applaude volentieri papa Francesco, ma si dimentica in fretta la maledizione che ha scagliato contro i trafficanti di armi nell’omelia in Santa Marta del 19 novembre 2015.
Nelle cause più dolorose all’origine di tanti profughi, come le ingiustizie e le guerre, i Paesi ricchi del Nord del mondo hanno una parte enorme di responsabilità.
Se non rimuovono le cause di cui essi stessi sono responsabili, come possono affrontare credibilmente il dramma dei profughi?
Noi europei abbiamo, inoltre, la percezione che la maggior parte dei profughi venga in Europa o nell’America del Nord. Ma è una falsa percezione, spesso ideologicamente costruita.
Nell’Europa che innalza muri perché non vuole essere l’«ufficio di assistenza sociale del mondo», come ha detto Norbert Hofer, il candidato di estrema destra alle presidenziali austriache, sono arrivati nel 2015 circa un milione di profughi.
Non siamo l’ufficio di assistenza sociale del mondo
Ma i profughi nel mondo sono 60 milioni. Di questi, 40 milioni sono sfollati, rimasti cioè dentro i confini del proprio Paese, mentre 20 milioni sono le persone costrette ad abbandonare il proprio Paese, come documenta l’ultimo Rapporto dell’Onu (Unhcr Global Trends. Forced Displacement in 2014).
Mai così tanti profughi dalla seconda guerra mondiale. Per questo si parla di dramma epocale.
La realtà è che l’86% di loro è accolto nei Paesi più poveri o in quelli «in via di sviluppo». Non siamo noi l’ufficio di assistenza sociale del mondo. Non portiamo noi, benestanti, il peso maggiore delle sofferenze di questi fiumi di profughi. Lo portano i più poveri.
Il Libano, che è grande poco meno del Trentino-Alto Adige e che ha 4 milioni e mezzo di abitanti, accoglie un milione e 200 mila profughi, più dell’intera Europa che ha 550 milioni di abitanti. Un Paese storicamente tormentato di suo, il piccolo Libano, che cerca di reggere la difficilissima sfida di far convivere al governo sciiti, sunniti e cristiani. Una sfida che fa impallidire quelle a cui sono chiamati i Paesi europei.
E noi saremmo l’ufficio di assistenza sociale del mondo?
L’Italia ha accolto nel 2015 poco meno di 160 mila profughi, ma la metà di loro, circa, non si è fermata nel nostro Paese a chiedere asilo e si è spostata verso i Paesi del Nord. Al 31 marzo 2016 nelle strutture di accoglienza sparse in Italia erano accolti 111.081 profughi, secondo il ministero degli Interni.
I Pesi poveri accolgono la stragrande maggioranza dei profughi
Pensiamo anche noi di dover sopportare il peso dei dolori del mondo? La Turchia accoglie 2 milioni e mezzo di profughi, il Pakistan un milione e mezzo, l’Iran un milione. Sono per lo più siriani, afgani, iracheni, oltre agli «storici» palestinesi.
I profughi che fuggono dai Paesi in guerra si rifugiano per la stragrande maggioranza nei Paesi vicini e rimangono lì, per anni, talvolta per sempre, accolti nelle città, nelle campagne, spesso in piccoli o immensi campi, e assistiti dalle Nazioni Unite, dalle organizzazioni umanitarie, dalle Chiese.
Lo stesso accade nell’Africa subsahariana, l’altra area del mondo in cui scorrono da un Paese all’altro fiumi di profughi, e solo una minima parte di loro prova la pericolosa avventura di cercare salvezza in Europa.
L’Etiopia, tormentata dalla siccità, ne accoglie 700 mila, in immensi campi profughi, fatti di baracche e capanne coperte con teloni di plastica e lamiere.
E così il Kenya, dove nel Nord Ovest, al confine col Sudan e con l’Uganda, c’è il più grande campo profughi del mondo, quello di Dadaab, 50 chilometri quadrati e 344 mila persone, in gran parte donne e bambini. Un oceano di dolori, di attese, di speranze. Siamo noi l’ufficio di assistenza sociale del mondo?
In Ciad ci sono quasi mezzo milione di profughi. Un Paese, il Ciad, che, come altri in Africa, riempiamo (la Francia, in primo luogo) di armi in cambio di risorse preziose, e di soldi perché si tenga i profughi. Ma i soldi finiscono per ingrassare il regime che si mantiene tra lussi e repressioni.
Vivono delle rimesse dei migranti
Aiutare i governi africani perché si tengano i profughi? Gli aiuti finiscono ancora una volta ai carnefici, non alle vittime. Ce lo ha ricordato recentemente anche Domenico Quirico in uno dei suoi memorabili reportage (Tra i profughi del lago Ciad dove l’Europa resta un miraggio, «La Stampa», 12 maggio 2016).
Lo stesso Quirico, che visse una drammatica esperienza di rapimento in Siria, durata mesi, ci ha dato con il suo recentissimo libro Esodo. Storia del nuovo millennio (Neri Pozza, Vicenza 2016) un dolente, umanissimo sguardo sui migranti dall’Africa e dal Vicino Oriente visti là da dove partono.
Dai villaggi svuotati del Mali, ad esempio, dove si piangono quelli che sono partiti e non hanno dato più notizie, e dove si spingono a partire i giovani rimasti, altrimenti perdono l’onore. Perché gli abitanti vivono soltanto delle rimesse degli emigranti, e chi non vuole partire è solo un vigliacco che non vuol fare il suo dovere.
Dobbiamo saper vedere il mondo dalla loro parte. Le statistiche allora si riempiono di volti, di storie. Di vita vera. E noi cominciamo a capire qualcosa di più di questo dramma epocale. Possiamo capire di più anche le nostre responsabilità.
Rifugiati ambientali
Anche i disastri ambientali, spesso causati dall’uomo, costringono milioni di persone a diventare sfollati e profughi. Il surriscaldamento climatico drammatizza il problema dell’acqua nei Paesi africani e asiatici, i processi di desertificazione aumentano, gli oceani si innalzano per lo scioglimento dei ghiacciai:
Se il livello di innalzamento degli oceani procederà al ritmo attuale, entro il 2100 il solo Bangladesh avrà 35 milioni di rifugiati ambientali
ricorda monsignor Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes della Conferenza episcopale italiana (Uomini e donne come noi. I migranti, l’Europa, la Chiesa, La Scuola, Brescia 2015, p. 18).
L’enciclica Laudato si’ di papa Francesco sulla «cura della casa comune» si rivela anche da questo punto di vista un testo profetico e indispensabile più che mai.
La rivoluzione demografica
Ci sono poi gli squilibri demografici all’origine di tante migrazioni.
O, piuttosto, è in atto, da un paio di secoli, una «rivoluzione demografica», come la chiamano gli esperti, senza precedenti.
I Paesi ricchi del Nord del mondo invecchiano rapidamente, e l’Italia è tra i primi posti in questa classifica. Si vive di più e i nuovi nati sono sempre meno.
Nei Paesi più poveri, soprattutto in Africa, ma anche nell’Asia meridionale, accade il contrario, ci sono moltissimi bambini e pochi vecchi. Gli spostamenti di milioni di giovani diventano così inevitabili.
Se il sogno di alcuni si realizzasse, e i Paesi ricchi “blindassero” le loro frontiere, nel giro di vent’anni i loro abitanti in età lavorativa (20-64 anni) passerebbero da 753 a 664 milioni, con una diminuzione fra il 2015 e il 2035 di quasi 4,5 milioni l’anno.
D’altro canto, se i Paesi poveri chiudessero improvvisamente le loro frontiere, nel giro di vent’anni la loro popolazione fra i 20 e i 64 anni aumenterebbe di quasi 850 milioni di unità, ossia più di 42 milioni l’anno.
Nel prossimo ventennio, dunque, il mondo ricco non potrà fare a meno dei migranti”
(S. Allievi – G. Dalla Zuanna, Tutto quello che non vi hanno mai detto sull’immigrazione, Laterza, Roma-Bari 2016, p. 10).
Ci vogliono anche politiche di sostegno vero alla famiglia e alla natalità, perché mettere al mondo figli nel nostro Paese, con la crisi che c’è, richiede molto coraggio. Ma anche se queste politiche fossero finalmente attuate, il declino demografico sarebbe inevitabile e rapidissimo senza l’arrivo di giovani immigrati.
Imparare a convivere fra diversi
Impegnarsi con intelligenza e convinzione nella costruzione di una società che sappia far convivere bene culture e religioni diverse non è un’opzione ma una necessità cui nessuno, nemmeno coloro cui questa convivenza non piace, possono più sottrarsi.
Ecco, in grande sintesi, le ragioni che sono alla base degli impressionanti fenomeni migratori che stanno accadendo. E che dovrebbero spingerci a promuovere una solida, intelligente, creativa cultura dell’accoglienza.
Ma la nostra sintesi sarebbe incompleta se ignorassimo che c’è, prima e al di là di tutto, un dato antropologico, costitutivo e indistruttibile dell’essere umano.
L’uomo è migrante da sempre
L’uomo è migrante. Lo è sempre stato e lo sarà sempre.
Fin dalle origini l’umanità si è sempre spostata.
L’uomo si è evoluto migrando. Ha imparato migrando. Ha cambiato se stesso e il mondo migrando.
Dai primi esemplari del genere Homo che dal continente africano si mossero per colonizzare l’Eurasia due milioni di anni fa, ai gruppetti di Homo sapiens che 200 mila anni fa ancora una volta si spostarono dall’Africa ed esplorarono i continenti vicini l’umanità si è costruita sulle migrazioni.
E continua a costruirsi sulle migrazioni. E quindi sul mescolamento tra diversi, sull’intreccio di storie, di lingue, di culture. Con cui l’umanità continuamente si rinnova (cfr. L. L. Cavalli Sforza – T. Pievani, Homo Sapiens. La grande storia della diversità umana, Codice, Torino 2011).
Dalle migrazioni nasce il nuovo
I fondatori sono spesso migranti.
La Bibbia, il grande codice, lo testimonia mirabilmente. Nella Genesi, nell’inizio, c’è la storia del fondatore delle tre grandi religioni monoteiste, Abramo, un abitante della mesopotamica terra di Ur, oggi l’irachena Al-Muqayyar, che diventa migrante.
Il Signore disse ad Abramo: Vattene dalla tua terra, dalla tua parentela e dalla casa di tuo padre, verso la terra che io ti indicherò. Farò di te una grande nazione
(Genesi 12, 1-2).
E poi Mosè, l’Esodo. Una migrazione di popolo non solo liberatoria, ma anch’essa fondativa.
Le migrazioni non sono meri spostamenti, sono reinvenzioni, ri-creazioni. Perfino la migrazione forzata, la deportazione a Babilonia, genererà una rifondazione per Israele. Inevitabilità dello spostamento, dello sradicamento per l’atto generativo, fondativo.
E Gesù? Andate in tutto il mondo… La salvezza è per tutti. Non c’è più giudeo, né greco… I confini etnici, culturali, religiosi ma anche territoriali e politici sono abbattuti una volta per sempre.
Quante fondazioni ha generato la diaspora cristiana, quante ri-creazioni ha partorito la migrazione cristiana nel mondo!
Quanti mescolamenti, quanto reinvenzioni di civiltà. E quanti nuovi e diversi modi di essere cristiani.
Roma fondata dai profughi
E la Roma imperiale fondata da profughi?
In un bellissimo libro uscito da Bompiani all’inizio di quest’anno, L’Italia. L’invenzione della patria, Fabio Finotti ci dà un quadro mirabile di questo atto fondativo, del suo significato e della sua portata. E che può illuminare anche il nostro presente:
«Il tema al centro dell’Eneide evoca l’esperienza dei popoli indoeuropei, le loro migrazioni, e la necessità di bilanciare la fedeltà alle tradizioni con l’incessante espansione in geografie sconosciute.
La nuova patria, capace di riflettere quella abbandonata, è il modello antropologico con cui gli uomini occidentali mediano tra passato e futuro, e controllano l’ansia dell’ignoto […]. Svincolata dalla realtà fisica, la patria si trasforma in spazio interiore e può materializzarsi in varie parti della Terra […].
La nuova patria non costruirà mura per dividere i troiani dai non troiani, ma proporrà un modello nuovo di polis, nella quale l’eredità di Troia si fonderà con l’identità dei popoli che vivono nella “terra del tramonto”: teucri e latini si uniranno, facendo dell’Italia la patria comune di popoli diversi» (pp. 37-38).
E il grandioso millennio del Medioevo europeo, con le cattedrali gotiche, Giotto, san Francesco e Dante, non è nato forse dall’intreccio tra i migranti del Nord e i «vecchi» latini? Proprio quando sembrava che tutto fosse finito cominciava un mondo nuovo, capace di nuove meravigliose creazioni.
Anche nell’immaginario Stato ideale dell’isola di Utopia, inventato da san Tommaso Moro esattamente cinque secoli fa, nel 1516, proprio al tramonto di quel Medioevo, Utopo è un riformatore venuto da fuori. La società perfetta ha bisogno dello straniero per essere pensata e realizzata.
Lo stesso impero americano non è nato forse dai migranti di quattro secoli fa, fuggiti dagli Stati assoluti europei, dalla modernità post medievale, per il bisogno di inventare un modo più umano e più libero di stare insieme al mondo?
Lo spostamento e il mescolamento ricreano il mondo
Sembra proprio che – nella storia e nel mito con cui gli uomini ripensano la storia e cercano di darle un significato – ci sia bisogno dello spostamento, dell’intreccio, del mescolamento per fondare, e poi per rifondare, per ricreare il mondo.
Siamo di fronte anche oggi, probabilmente, a nuove fondazioni, a nuove nascite. Noi ci lasciamo prendere facilmente dall’ansia e dalla paura. Ci sembra di vedere solo la fine di un mondo, e certamente le migrazioni che stanno cambiando radicalmente le nostre società testimoniano che un mondo finisce.
Ma, ancora una volta, un mondo nuovo sta nascendo sulle spoglie del vecchio. A noi decidere se lamentarci, rimpiangere, spaventarci oppure armarci di speranza. Lasciamo che i morti seppelliscano i morti e guardiamo con fiducia alle promesse e alle sorprese del Dio dei viventi.
Pubblicato su «Settimana news», il 21 maggio 2016