Non avevamo mai disperato della possibilità che l’altra Austria ce la potesse fare. L’altra Austria, orfana di rappresentanza politica, alla fine ce l’fatta. È riuscita a sconfiggere il quarantacinquenne estremista verniciato di moderazione Norbert Hofer, un post-nazista che gira con la pistola in tasca, e a mandare alla presidenza della Repubblica un “vecchietto” sempreverde, il settantaduenne economista Alexander Van der Bellen, un democratico figlio di profughi fuggiti dalla dittatura comunista sovietica.
Ha vinto l’altra Austria
Ha vinto l’altra Austria, quella che in questi mesi è stata oscurata dall’ascesa abbagliante dell’estremista dal sorriso ingannevole che odia gli stranieri, porta all’occhiello il fiordaliso, simbolo degli austriaci filonazisti degli anni ’30, e gira armato perché, lo dice lui, ama sparare (se avesse vinto, forse i controlli al Brennero li avremmo dovuti mettere noi…).
Ha vinto l’altra Austria, quella oscurata anche dalle clamorose ambiguità dei due partiti di governo, il socialdemocratico e il cristiano popolare che, logorati da decenni di incontrastato potere, hanno finito per rinnegare i propri valorie, scimmiottando l’estrema destra dell’ungherese Orban e del polacco Kaczynski, hanno ripristinato sciaguratamente la barriera del Brennero sperando di salvarsi alle elezioni. Un suicidio.
Volontari, giovani, donne, parrocchie, amministratori comunali
Certo, metà del paese è con Hofer, perché c’è anche un bel pezzo d’Austria che non ha mai fatto i conti col proprio passato e pensa che un post-nazista possa essere la cura per paure e insicurezze sociali ed economiche, come se quel modello di cura non fosse già stato sinistramente sperimentato. Non sono post-naziste le paure e le insicurezze, ma la cura Hofer sì.
Però alla fine ha vinto l’altra Austria: quella rappresentata dal variegato e tenace pezzo di società civile fatto di volontariato, associazioni, movimenti giovanili, parrocchie, donne, amministratori comunali che in questi anni, e anche in questi ultimi difficilissimi mesi, ha difeso a viso aperto e testimoniato nel concreto le ragioni dell’accoglienza dei profughi. Le ragioni umane e politiche. Senza ambiguità, con coerenza e passione. Una grande lezione, per tutti.
Una cura democratica
La politica ambigua, ondivaga, che ha smesso di credere in valori forti e cerca di adattarsi agli umori dominanti pur di sopravvivere, che non mette in campo apertamente e con coraggio le proprie ragioni, è destinata a perdere.
Se è stata scongiurata, almeno per il momento, la cura post-nazista, occorre che i partiti democratici europei mettano urgentemente in campo una cura democratica per le paure e alle insicurezze. Un cura che, a nostro avviso, parte da almeno quattro punti fondamentali.
1. La politica non può dimenticare la giustizia sociale
Il primo. La politica deve tornare a guidare i processi sociali, invece di subirli. Ma bisogna essere dentro la società per guidarla, non nel palazzo, in un mondo astratto e privilegiato dove non ci lascia mettere in discussione dalle sofferenze e dai problemi che ci sono nelle famiglie, tra i giovani, gli anziani, i disoccupati, nelle periferie, nei quartieri popolari, nei paesi.
Sono troppi i non garantiti. Non si può contemplare la guerra tra poveri, o commentarla, ma bisogna affrontare seriamente il dramma delle vecchie e nuove povertà che la crisi economica ha creato tra i nostri concittadini, e quelle di coloro che le guerre e la fame hanno costretto a venire da paesi lontani a cercare rifugio da noi.
I poveri, i deboli, gli infelici sono tutti uguali. E una società umana e democratica deve occuparsi innanzitutto di loro, non se avanza tempo o se avanzano soldi.
La politica deve tornare a fare della giustizia sociale, dell’eguaglianza di opportunità, della questione del lavoro, dell’attenzione concreta e non demagogica o puramente caritatevole nei confronti dei più deboli, residenti o profughi che siano, il problema più importante.
Perché è quello che tocca il destino di tante persone, la loro vita, non un’astrazione, un’idea. La vita.
E se la politica perde per strada la vita, ha perso se stessa. E finisce per perdere anche gli elettori.
Ecco, io guardo con grande rispetto e attenzione all’attuale dibattito sulle riforme costituzionali. Chi ama il nostro paese non potrebbe altrimenti.
Ma trasformare questo nel problema decisivo, quando il problema decisivo per milioni di persone e famiglie è la sopravvivenza quotidiana significa perdere il contatto col mondo reale.
2. Il regolamento di Dublino va riformato
Il secondo punto della cura democratica alle paure e alle insicurezze: nessun paese europeo da solo può affrontare la questione dei profughi. Non lo può l’Austria e non lo può l’Italia, o la Grecia.
Un problema epocale va affrontare al suo livello, che è almeno il livello europeo. Il regolamento di Dublino che prevede che i profughi rimangano nel paese dove approdano va cambiato.
Perché è impensabile che siccome i profughi per ragioni geografiche arrivano per lo più in Italia o in Grecia rimangano tutti in Italia o in Grecia.
Il regolamento di Dublino è stato adottato prima che il dramma dei profughi assumesse le proporzioni di questi ultimi due anni a causa dell’acuirsi dei conflitti e delle violenze nel Vicino Oriente e in Africa. L’Italia e la Grecia non possono fare muri nel Mediterraneo, come fa l’Austria al Brennero.
Perché noi non vogliamo rimandare indietro, cioè alla morte, dei barconi precari carichi di esseri umani o stare lì a guardarli col fucile o il manganello in mano mentre affondano. Li salveremo sempre, perché il giorno in cui non li salveremo non saremo più degni di far parte dell’umanità.
Ma anche l’Austria finisce nella disumanità quando dice che questi esseri umani che abbiamo salvato sono nostri e loro non li vogliono.
Qui si innesta la questione del Brennero. L’esempio più clamoroso delle ambiguità del governo di Vienna. Che ha venduto parole rassicuranti in tutte le sedi in queste settimane, salvo in concreto procedere con la costruzione della disgraziata barriera. Vienna sta adesso rimandando in Italia più profughi di quanti ne passino dall’Italia all’Austria, questa è la realtà. C’è in atto una guerra dei numeri. Ma, come abbiamo già scritto e documentato su queste pagine, l’Austria è il paese europeo meno trasparente, e quindi meno affidabile, in fatto di numeri.
Perché è l‘unico paese che non rende pubblici, nemmeno all’Agenzia europea Eurostat, i dati sulle domande di asilo accolte e respinte, come fanno tutti i paesi. C’è qualcuno che chiede a Vienna perché nasconde questi dati quando tutti i paesi europei li rendono noti?
3. Promuovere politiche di integrazione e convivenza
Terzo punto. Va affrontata con forza la questione dell’integrazione nella società dei profughi dopo la loro accoglienza. Occorrono politiche sociali di respiro e di medio periodo.
Non si può accogliere, fare qualche buon progetto, se ci si riesce, e lasciare migliaia di giovani a se stessi. Ancora una volta: bisogna passare dall’emergenza al progetto sociale se si vuole affrontare un dramma epocale all’altezza che richiede.
L’Europa, non solo l’Italia, è tutta presa ancora dell’emergenza. Ma si deve andare oltre.
La questione si intreccia a questo punto con quella più ampia dell’immigrazione, dell’integrazione (o interazione, convivenza) dei migranti, in un contesto europeo che vede la loro presenza indispensabile per affrontare il pauroso calo demografico e le conseguenze che queste provoca a livello economico, sociale, previdenziale. È una questione vitale per tutti: migranti, rifugiati, residenti, Europa.
4. Chi causa le guerre e le diseguaglianze?
Quarto punto. Se non si affrontano seriamente le cause all’origine delle guerre e delle miserie che provocano tanti profughi, non ci sarà mai soluzione al dramma epocale che stiamo vivendo. Non basta cercare di curare gli effetti.
È in corso a Istanbul la Conferenza internazionale dell’Onu sulla crisi umanitaria. Lodevole. Ma perché non una conferenza sulle cause delle vergognose diseguaglianze tra paesi ricchi e paesi poveri?
Perché non una conferenza sulle responsabilità delle guerre in corso? Su chi vende armi e alimenta i conflitti nel Vicino Oriente e in Africa? Su chi arma il terrorismo estremista islamico che provoca morti, rovine e profughi?
Un’ampia inchiesta del “New York Times” pubblicata sabato scorso 21 maggio ha documentato i finanziamenti dell’Arabia Saudita ai gruppi terroristici islamici affiliati all’Isis presenti e sempre più diffusi in Kosovo.
Ma l’Arabia Saudita è armata dai paesi occidentali, Italia compresa che ha triplicato in un anno il suo export di armi. La politica tace però su questo.
Lo vogliamo affrontare seriamente questo dramma epocale dei profughi? Vogliamo, sì o no, mettere in campo una cura democratica alle paure e alle insicurezze?
Pubblicato sul quotidiano “l’Adige” il 26 maggio 2016