In questi mesi il salvataggio in mare e l’approdo sulle nostre coste di tanti profughi (153 mila fino a tutt’oggi, in questo 2016; 140 mila furono in tutto il 2015; 170 mila nel 2014) ripropone in termini di «emergenza» la questione migratoria, anche per le tante vittime dei naufragi, già più di 3.200 quest’anno.
Ma accanto all’emergenza profughi e al dramma senza fine delle vittime dei naufragi, c’è un fenomeno migratorio che è strutturale da almeno venticinque anni nel nostro Paese, dove ormai vivono cinque milioni di persone nate altrove.
Certo, la sanguinosa guerra in Siria negli ultimi cinque anni, quella di Libia, il perdurare di quelle in Afghanistan e in Iraq (a conferma dell’irresponsabile arroganza occidentale che le volle), l’acuirsi delle violenze inferte alle popolazioni civili da parte dei movimenti radicali islamisti e da parte delle tante guerre e guerriglie in Africa, i disastri ambientali, gli sfruttamenti neocoloniali e le spaventose diseguaglianze in termini di opportunità di vita in molte aree soprattutto dell’Africa e dell’Asia, ma anche del Centro e Sud America, hanno moltiplicato a dismisura nel mondo il numero degli sfollati, 40 milioni, e di profughi, 20 milioni.
Questi ultimi costretti a lasciare il proprio Paese per chiedere asilo altrove: solo una minima parte di essi, però, approda in Europa o nel Nord America.
Profughi: l’aspetto drammatico di un più ampio e anche positivo fenomeno
Contrariamente a quanto le opinioni pubbliche del Nord ricco del mondo percepiscono, l’86% dei profughi è accolto nei Paesi più poveri, quelli limitrofi alle zone di conflitto, come documenta l’Alto commissariato delle Nazioni Unite per i rifugiati.
Il dramma dei profughi è tuttavia solo l’aspetto più drammatico di un ben più ampio e consistente fenomeno migratorio che ha spesso connotati di positiva affermazione della libertà personale e che da tempo sta modificando in maniera irreversibile il volto sociale, culturale, religioso di molte aree del pianeta, compreso il nostro Paese, il quale fatica però, ancora, a guardare a tale fenomeno in termini strutturali e non più emergenziali.
Guardare al fenomeno in termini strutturali vuol dire comprendere che esso non è di adesso, non è qualcosa di momentaneo destinato a passare, ha già una storia, ha già modificato la struttura della nostra società e continua a farlo.
Vuol dire assumere atteggiamenti e impostare politiche consapevoli di ciò.
Il fenomeno sociale più importante del nostro tempo
È sull’immigrazione come fenomeno strutturale della società italiana che si concentra l’attenzione del «XXV Rapporto immigrazione 2015» curato da Caritas e Fondazione Migrantes e pubblicato recentemente.
Presentando il rapporto, don Francesco Soddu, direttore della Caritas italiana, ha definito l’immigrazione «il fenomeno sociale più importante del nostro tempo», mentre monsignor Giancarlo Perego, direttore della Fondazione Migrantes, espressione della Conferenza episcopale italiana, ha ricordato che l’immigrazione «sta rinnovando i luoghi fondamentali della vita sociale del nostro Paese: il lavoro, la scuola, la famiglia, la città, la Chiesa».
Il rapporto – un volume di 518 pagine, esemplare per chiarezza, ricchezza di dati e approfondimenti e che dovrebbe far parte della consultazione abituale di ogni persona che volesse attingere informazioni e riflessioni da una fonte autorevole su un tema così decisivo – ha un eloquente sottotitolo: «La cultura dell’incontro».
È diviso in due parti: nella prima si dà un quadro statistico chiaro e commentato dell’immigrazione nel contesto internazionale e in quello italiano, quest’ultimo affrontato anche con schede regionali e approfondimenti («Italia, un Paese plasmato dall’immigrazione», «Lo straniero autore e vittima di reato», «Immigrazione e territorio»).
La seconda parte, invece, consiste in uno «Speciale 25 anni», dove insieme ad analisi tematiche redatte da esperti (lavoro, scuola, minori, studenti, cittadinanza, ruolo dei media, legislazione in materia, dialogo tra le religioni) si dà conto delle numerose esperienze ecclesiali che in questi venticinque anni hanno costruito quella «cultura dell’incontro» che, come ha ribadito monsignor Perego, è «l’unica strada» che dobbiamo percorrere se vogliamo evitare «conflittualità, divisione, violenza, povertà: parole che non possono preparare un futuro per i ragazzi e i giovani dell’Italia e dell’Europa».
Qui di seguito diamo conto soltanto di alcuni dati e temi del rapporto, la cui lettura, lo ribadiamo, è semplicemente indispensabile per capire questo fenomeno epocale.
Le migrazioni nel mondo
Nel 2015 le persone che nel mondo vivono da più di un anno in un Paese diverso da quello dove sono nate assommano a 243,7 milioni, secondo le Nazioni Unite (erano 173 milioni nel 2000). La sesta «nazione» al mondo per numero di «abitanti».
Siamo di fronte a crescenti spostamenti di popolazione all’interno dei vari continenti e tra un continente e l’altro.
La migrazione è davvero il fenomeno sociale più importante del nostro tempo.
È d’altronde sotto gli occhi di tutti quanto sia diventato uno dei temi cruciali di un po’ tutte le campagne elettorali, non solo europee o americane.
Il 31,2% degli immigrati lo troviamo in Europa, il 30,8% in Asia, il 22,4% in Nord America. Stati Uniti e Russia ospitano un quarto del totale dei migranti internazionali.
Nei primi undici Paesi ospitanti troviamo anche Germania, Arabia Saudita, Regno Unito, Emirati Arabi, Canada, Francia, Australia, Spagna e Italia.
L’Europa, complessivamente, ha 35,2 milioni di immigrati, il 3,6% in più rispetto al 2014.
Il tradizionale scopo del migrante non è solo quello di affermarsi personalmente, ma anche di sostenere da lontano la famiglia.
Le rimesse dei migranti verso i Paesi in via di sviluppo ammontano nel 2015 a 432 miliardi di dollari, secondo la Banca Mondiale, ricorda il Rapporto Caritas-Migrantes. Vi andrebbe aggiunto un altro 50% di questa cifra se si contassero i flussi non registrati.
I migranti si confermano quindi un fattore decisivo dello sviluppo dei Paesi d’origine, come d’altronde lo furono per l’Italia.
Gli immigrati in Italia
Tutto il «XXV Rapporto immigrazione 2015» è costruito sulla base dei dati al 31 dicembre 2014. Tuttavia è stato opportunamente aggiunto all’ultimo momento, poco prima di andare in stampa, il dato fornito dall’Istat sulla popolazione italiana al 31 dicembre 2015, secondo il quale risultavano in Italia 5.026.153 persone con cittadinanza straniera, l’8,3% della popolazione (60.665.551 abitanti). Un aumento della popolazione straniera di appena 11.716 unità, lo 0,2% in più rispetto all’anno precedente, a fronte di una clamorosa diminuzione degli abitanti della penisola di 130.061 unità (gli abitanti al 31 dicembre 2014 erano infatti 60.795.612).
Nessuna invasione quindi di stranieri, ma tendenza alla stabilità, se non alla flessione in alcune regioni (Nord Est, Umbria, Marche). L’Italia non è più un Paese appetibile per i migranti.
Più morti che nati
L’anno 2015 è stato un annus horribilis per la demografia italiana: popolazione in calo, più morti, meno nati.
Cosa sta succedendo? E se non ci fossero gli stranieri?
Leggere il rapporto vuol dire conoscere una realtà che non è quella delle propagande politiche e della chiacchiera quotidiana.
La questione demografica in rapporto anche alla presenza degli stranieri sta diventando centrale, seppur tardivamente, nel dibattito su come il nostro Paese sta affrontando il proprio futuro, anzi, la propria esistenza futura.
Il 60% degli stranieri risiede nel Nord Italia, il 25% al Centro, il 15,2% nel Mezzogiorno. In tre regioni del Nord e in una del Centro c’è più della metà (il 56,6%) della popolazione immigrata (Lombardia 23%, Lazio 12,7, Emilia Romagna 10,7, Veneto 10,2).
Nazionalità
Le nazionalità più presenti sono, nell’ordine, Romania (22,6%), Albania (9,8), Marocco (9,0), Cina (5,3), Ucraina (4,5), Filippine (3,4), India (2,9), Moldova (2,9, Bangladesh, Perù, Egitto, Sri Lanka, Pakistan, Tunisia, tutte tra il 2,3 e l’1,9 %.
Nel 2014 vi sono state 129.887 acquisizioni di cittadinanza italiana da parte di stranieri (più 29% rispetto all’anno precedente).
Marocchini e albanesi rappresentano quasi il 40% dei nuovi cittadini italiani, e molti di loro (il 39,4%) sono giovani con meno di diciotto anni.
Vergognose ingiustizie
Molta attenzione dedica il rapporto ai temi del lavoro. Gli stranieri occupati nel mondo del lavoro sono 2.360.307 e rappresentano il 10,5% del totale degli occupati. L’88,5% sono dipendenti. In cerca di lavoro ci sono 455.578 stranieri.
Dove lavorano: nei servizi collettivi e personali (29,8%), nell’industria (18,4), negli alberghi e ristoranti (10,9), nelle costruzioni (9,6), nel commercio (8,3). Le donne per lo più nelle solite 3 C, caring, cleaning, catering: assistenza, pulizie, ristorazione.
Sul totale degli stranieri occupati, quelli che svolgono un lavoro non qualificato sono il 36,5% (gli occupati italiani non qualificati sono invece il 7,9% del totale degli italiani occupati).
La metà degli stranieri occupati ha un contratto a tempo indeterminato, ma con una retribuzione inferiore a quella degli italiani.
Mentre la retribuzione media mensile di un lavoratore italiano è di 1.356 euro, quella di un lavoratore straniero è di 965 euro: il 30% in meno.
Le diseguaglianze sono palesi, più degli sfruttamenti che non sono meno pesanti, ma spesso più celati da forme contrattuali «deboli» e da lavori meno stabili, specialmente per le donne.
Non c’è bisogno di agitare lo slogan «prima gli italiani»: è già nelle cose.
«Lavoratore povero» è considerato colui che ha una retribuzione inferiore ai due terzi del salario medio calcolato su base oraria.
Ebbene, secondo il Rapporto di Caritas-Migrantes, i lavoratori poveri stranieri rappresentano il 41,7% del totale degli occupati stranieri, contro il 14,9% dei lavoratori poveri italiani sul totale degli occupati italiani. Diseguaglianze a dir poco vergognose.
Ancora una volta le donne straniere sono le più penalizzate: il 59,3% di loro è una lavoratrice povera.
Quando si parla di come gli stranieri trattano le donne, forse bisognerebbe ricordare come gli italiani trattano le donne lavoratrici straniere.
Guardare all’immigrazione come fenomeno strutturale vuol dire guardare anche a queste ingiustizie e diseguaglianze che, ricorda il rapporto, sono un elemento caratterizzante del mercato del lavoro italiano.
Ancora una volta: la lettura del rapporto ci rivela un’Italia che non conosciamo e nella quale prosperano nel silenzio generale vergognose ingiustizie verso le persone più deboli. Chi fa battaglie in loro difesa? Qualche eroe solitario, quando c’è.
La scuola
La scuola. Nell’anno scolastico 2014-2015 gli alunni stranieri erano 814.187, il 9,2% della popolazione scolastica, 11.243 alunni in più (l’1,4%) rispetto all’anno precedente.
Di questi, che chiamiamo «stranieri», 445.534 sono nati in realtà in Italia, quindi più della metà: in altri contesti nazionali sarebbero a tutti gli effetti cittadini della terra in cui sono nati.
Gli alunni stranieri sono presenti soprattutto in Emilia Romagna (15,5% del totale degli alunni), Lombardia (14,3), Umbria (14,2), Veneto (13,0), Trentino-Alto Adige (12,1), Liguria (11,8). Pochi al Sud. In Campania, ad esempio, si registrano solo il 2,2% di alunni stranieri.
Alunni stranieri che nel nostro Paese, malgrado gli sforzi intelligenti e appassionati di tanti, patiscono una dispersione scolastica ancora troppo elevata. Perdite umane che, come nel mondo del lavoro, mettono in luce profonde diseguaglianze di fronte alle quali non possiamo rimanere silenziosi e inerti.
Anche esperienze positive
Il rapporto, come detto all’inizio, ha una seconda, consistente e importantissima parte, «Speciale 25 anni», di cui non possiamo dare conto, ma che mette in luce, accanto ad analisi tematiche, tutta una serie di esperienze positive di costruzione di «cultura dell’incontro» nella nostra società e nella Chiesa italiana realizzate in questo quarto di secolo.
Testimonianze, riflessioni, storie altrettanto importanti dei dati statistici e delle analisi, e utili soprattutto per i tanti che ancora si chiedono «cosa possiamo fare».
Pubblicato su «Settimananews.it» il 26 ottobre 2016