Debole con i forti, forte con i deboli. Se c’è un Paese sotto accusa per aver alimentato, finanziato, diffuso il terrorismo internazionale questo è l’Arabia Saudita, ma essa è esclusa dall’ordine esecutivo firmato venerdì 27 gennaio dal presidente Donald Trump, con cui si vieta, senza limiti temporali, ai rifugiati siriani l’ingresso negli Stati Uniti, si sospende per quattro mesi l’ammissione nel Paese di tutti gli altri rifugiati e si blocca per tre mesi l’ingresso dei cittadini di sette Paesi a maggioranza musulmana: Iran, Iraq, Libia, Somalia, Sudan, Siria, Yemen.
Lo scopo del provvedimento è quello, si legge testualmente nell’ordine esecutivo, «di proteggere il popolo americano da attacchi terroristici da parte di cittadini stranieri ammessi negli Stati Uniti».
Perché tra i nuovi «stati canaglia» non c’è l’Arabia Saudita?
È la domanda che molti si pongono in queste ore, domanda chiaramente retorica.
Tutti sanno che l’Arabia Saudita è, con gli stessi Stati Uniti e la Russia, nella triade dei maggiori Paesi produttori al mondo di petrolio (gli Usa ne sono anche grandi importatori), è il maggior importatore di armi al mondo, in gran parte dagli Stati Uniti (mai così tante come sotto la presidenza Obama), è un cliente privilegiato del sistema finanziario e immobiliare americano.
Il «New York Times» ha poi ricordato, domenica 29 gennaio, gli affari personali del miliardario Trump in Arabia Saudita e in altri Paesi a maggioranza musulmana, come l’Egitto e gli Emirati Arabi Uniti, esclusi dal provvedimento.
Eppure, ricordava l’autorevole quotidiano americano, proprio da questi Paesi, non compresi tra i nuovi “Stati canaglia”, provenivano diciotto dei diciannove terroristi responsabili dell’attentato alle Torri Gemelle di New York dell’11 settembre 2001. Mai attentato terroristico fu così spaventoso: 2.996 morti.
Da lì, non dimentichiamolo, partì la guerra americana all’Afghanistan, tutt’ora in corso, che ha causato decine di migliaia di morti e milioni di profughi, e che è all’origine, insieme alla ingiustificata guerra all’Iraq, della dissoluzione del Vicino Oriente.
Una dissoluzione che è la causa principale dell’attuale esodo di profughi. L’attacco alle Torri Gemelle, come è noto, fu architettato e diretto dal potente saudita Osama Bin Laden in collaborazione con l’egiziano Ayman al-Zawahri.
La consapevolezza che le responsabilità dei sauditi nell’attacco dell’11 settembre siano da collocare molto in alto, e non semplicemente al livello di singoli militanti, è dimostrata anche dal fatto che il Congresso americano ha approvato nel settembre del 2016, con una maggioranza superiore ai due terzi (democratici e repubblicani insieme), tale quindi da superare il veto posto dal presidente Obama, la legge «Jasta» (Justice Against Sponsors of Terrorism Act), con la quale si consente ai parenti delle vittime dell’11 settembre di fare causa e chiedere risarcimenti al governo dell’Arabia Saudita per l’attentato, per quanto questo governo abbia sempre negato ogni responsabilità.
Comunque sia, se c’è un Paese pesantemente sotto accusa, e negli stessi Stati Uniti, per le sue responsabilità nel sostegno e nella diffusione del terrorismo internazionale, questo è l’Arabia Saudita.
Il ruolo di questo Paese nel finanziamento delle basi Isis in Europa, specialmente in Kosovo, è stato messo in luce da altre inchieste internazionali: Kosovo, la base dell’Isis in Europa con i soldi dell’Arabia Saudita, titolava il quotidiano «La Stampa» del 23 maggio 2016 riprendendo un’ampia inchiesta del «New York Times» di due giorni prima.
Un’analisi documentata del ruolo determinante dei sauditi nel terrorismo internazionale la possiamo trovare anche nel libro di Fulvio Scaglione, un attento esperto internazionale, Il patto con il diavolo (Rizzoli, Milano 2016). Ormai, riguardo le gravi responsabilità dell’Arabia Saudita nel terrorismo internazionale, siamo ben al di là di opinioni di singoli esperti.
Ma è meglio prendersela coi rifugiati che con i sauditi.
I sauditi non hanno rifugiati, ma esportano terrorismo con mezzi ben più potenti.
La tragedia sconfina nella commedia. Le banche saudite detengono 750 miliardi di dollari del debito sovrano americano: un’impressionante arma di ricatto, tale da far tremare il mondo, più forte di qualsiasi attentato dell’11 settembre e di tutti quelli che sono venuti dopo e che verranno.
No, meglio prendersela con i deboli, non con i forti. Meglio fingere di combattere il terrorismo combattendo contro le vittime che scappano, piuttosto che prendersela con i veri responsabili.
La commedia aggrava la tragedia. Populisti di tutto il mondo: fino a quando?
Pubblicato sul giornale «l’Adige» il 31 gennaio 2017