Perché serve lo “ius soli”

Tam Tam Basketball è una squadra di ragazzi stranieri di Castel Volturno, in provincia di Caserta, allenata con passione e con metodi innovativi da Max Antonelli, già campione a Bologna e a Napoli. La cittadina campana deve fare i conti con gravi problemi sociali e con una forte presenza della criminalità organizzata.

Togliere i ragazzi dalla strada, farli andare a scuola, dare loro la possibilità di praticare uno sport è il modo migliore per evitare che finiscano in giri pericolosi.

Nella cittadina che si affaccia sul Golfo di Gaeta vivono molti stranieri e la loro integrazione nella comunità è una sfida continua.

 

Una squadra di ragazzi africani

Max Antonelli ha messo insieme una squadra di basket composta di ragazzi africani dai tredici ai quindici anni, nati e cresciuti a Castel Volturno. Sono come i loro coetanei italiani, hanno fatto le stesse scuole, giocato negli stessi cortili, guardato la stessa tv, mangiato le stesse pizze.

Parlano come loro, hanno i loro stessi sogni.

Hanno scoperto però che non sono come i loro coetanei italiani.

Quando si è trattato di iscrivere la squadra al campionato federale giovanile, Max Antonelli si è visto respingere la domanda perché i ragazzi sono stranieri per la legge italiana, e secondo i regolamenti della Federazione di pallacanestro non possono giocare più di due stranieri per squadra.

Non importa se sono nati e vivono da tredici, quattordici, quindici anni in Italia, se hanno fatto e stanno facendo il percorso scolastico di ogni italiano: sono stranieri finché non avranno compiuto i diciotto anni.

D’un colpo i ragazzi si sono sentiti respinti da quella stessa comunità nella quale hanno trascorso tutta la loro vita.

 

Storia a lieto fine

Ma Antonelli non si è arreso a questa ingiustizia.

Ha mobilitato mezzo mondo, ha portato il caso all’attenzione dei media e del parlamento e l’ha vinta.

Un articolo sul diritto allo sport dei minori inserito nella legge di Bilancio ha permesso alla Federazione di pallacanestro di concedere una deroga al regolamento. Tam Tam Basketball è stata ammessa al campionato regionale Under 14 e il 18 novembre scorso ha esordito battendo per 65 a 57 la squadra del Casal di Principe.

Una storia a lieto fine.

Ma sono tanti i ragazzi in Italia che sono considerati ancora stranieri dalla legge anche se qui sono nati, sono cresciuti, hanno fatto e stanno facendo le scuole, hanno imparato lingua, cultura, tradizioni, modi di vivere italiani.

 

Riconoscerli come cittadini italiani

A questa ingiustizia vuole porre fine la legge sullo ius soli, come viene chiamata, attualmente ferma al Senato dopo essere stata approvata dalla Camera nell’ottobre 2015.

Se non fossimo da mesi in campagna elettorale e se il tema dell’immigrazione fosse affrontato con più serenità risulterebbe un atto di buon senso l’approvazione di questa legge.

Essa aggiunge due nuove modalità per diventare cittadini italiani, che è uso riassumere nei termini giuridici latini di «ius soli» (diritto del suolo) e «ius culturae» (diritto della cultura).

 

Non basta nascere in Italia

In base alla proposta di legge diventa cittadino italiano anche chi è nato nel territorio della Repubblica da genitori stranieri, ma almeno uno dei genitori deve avere un titolo di soggiorno permanente (quindi anche un alloggio, un lavoro, un reddito adeguato) o sia in possesso del permesso di soggiorno di lungo periodo dell’Unione Europea.

È quindi uno ius soli corretto, o temperato, perché non basta nascere in Italia (come avviene invece negli Stati Uniti, dove si diventa automaticamente cittadini americani nascendo lì, a prescindere dalla nazionalità dei genitori e da quanto tempo sono arrivati), ma occorre che almeno uno dei genitori sia in Italia da non meno di cinque anni, lavori, paghi le tasse.

È scorretto, quindi, collegare questa misura ai profughi che arrivano adesso, alla madre incinta che sbarca, perché la proposta di legge lo esclude.

 

La scuola garantisce cittadinanza

La seconda nuova modalità prevista dalla legge è lo ius culturae , ma sarebbe meglio chiamarlo «ius scholae», diritto della scuola.

Diventa cittadino italiano anche un minore straniero arrivato in Italia prima dei dodici anni e che abbia frequentato regolarmente per almeno cinque anni uno o più cicli scolastici, oppure che abbia meno di diciotto anni, che sia in Italia da almeno sei anni e che abbia frequentato un ciclo scolastico e conseguito il titolo conclusivo.

La proposta di legge riconosce quindi l’importanza decisiva della scuola, per un bambino che qui è nato o che qui è arrivato, per acquisire la cittadinanza.

 

Chi la merita di più?

Chi si oppone a questa proposta affermando che la cittadinanza bisogna meritarsela e averne consapevolezza dovrebbe confrontare la proposta con la legge in vigore.

Attualmente si diventa cittadini italiani dopo dieci anni di residenza legale nel caso di extra-comunitari, oppure sposando un’italiana, o un italiano: dopo due anni dal matrimonio, o dopo uno se ci sono figli, si diventa italiano/a.

Chi se la «merita di più» la cittadinanza, stando a questo criterio, il ragazzino che qui è nato e cresciuto, ha fatto le scuole, sa la lingua, o un adulto che semplicemente sposa una cittadina italiana e dopo due anni, o uno, diventa automaticamente italiano? Senza magari sapere una parola di italiano e non sapere nulla dell’Italia?

Chi se la «merita di più», il ragazzino di undici anni di Castel Volturno nato in Italia da due genitori stranieri e che qui è cresciuto, ha fatto e sta facendo le scuole, parla perfettamente l’italiano o il ragazzino di dodici anni figlio di uno straniero che ha sposato da un anno un’italiana e che non ha mai messo piede in una scuola italiana e non sa nemmeno dire «buongiorno», ma che eredita la cittadinanza dai genitori, secondo lo «ius sanguinis» (diritto del sangue) che domina l’attuale legge?

Non ho nulla contro le norme in vigore, che fra l’altro sono tra le più restrittive in Europa. Ma ignorano i diritti di tante ragazze e ragazzi.

Il buon senso ci dice che i ragazzi di Castel Volturno, e tutti quelli nella loro stessa situazione, sono i primi ad avere il diritto alla cittadinanza. A sentirsi italiani come i loro coetanei.

 

Pubblicato sul quotidiano “l’Adige” il 28 novembre 2017