Un giorno Samba Kebbeh, giovane proveniente dal Gambia e accolto come rifugiato nel paese di Valle San Felice, 260 abitanti, frazione del Comune trentino di Mori, disse a Manuela Ciaghi, volontaria: «In marzo si sposa mia sorella Delam. Noi non abbiamo un padre e nemmeno una madre. Io non posso andare in Gambia per accompagnarla al suo matrimonio, non ho soldi e neanche i documenti. Potresti andarci tu alla cerimonia? Tu sei come una madre per me e lo sarai anche per Delam».
Lo racconta Manuela in alcune pagine di diario, diffuse tra gli amici, e prosegue:
Mi sembrava più una supplica che una semplice richiesta; mi sentii un po’ confusa e smarrita all’idea di assumere improvvisamente il ruolo della madre di una giovane sposa gambiana; inoltre non avrei saputo come comportarmi in una tale circostanza.
Mi si accapponava la pelle all’idea di ammalarmi o di essere nel mirino del terrorismo internazionale, dovevo anche pensare alla mia famiglia, non potevo rischiare!
Per alcuni giorni Manuela ci pensa, poi si lascia vincere dai pensieri positivi e decide di partire per il Gambia insieme a suo marito Danilo, alla loro figlia Noemi e a un’amica, Anita.
“Abbiamo compreso cosa è l’amore e la fratellanza”
Dal 24 al 31 marzo 2019 sono nel Paese africano, uno dei più poveri del mondo. Giorni di scoperte, di immersione nella natura, di incontri e accoglienze, di emozioni.
Il matrimonio ha luogo a Flulakunda, rione della città di Brikama. La comunità è musulmana.
È una grande festa di famiglia, carica di viva partecipazione, di rituali curati, di musica, di profonda spiritualità.
La presenza di Manuela è consolante, è il segno che Samba è sì lontano, ma è amato, e che lui continua ad amare la sua famiglia. Il diario di Manuela può concludersi così:
Abbiamo sperimentato l’amore e la fratellanza, abbiamo conosciuto la semplicità, la modestia e la dignità di un popolo, ma soprattutto abbiamo compreso cosa significa amarsi gli uni gli altri come Dio ci ha amati.
Dall’assemblea infuocata alla solidarietà
Queste cose possono accadere quando ci sono volontari come Manuela.
Ma possono accadere anche perché c’è la buona politica che ne crea le condizioni, come è il caso, appunto, del Comune di Mori.
Perché la comunità di Valle San Felice aveva reagito tutt’altro che bene all’annuncio dell’arrivo dei profughi (una quindicina, africani e asiatici).
C’era stata un’assemblea pubblica infuocata.
Una seconda assemblea aveva stemperato gli animi e si erano fatte sentire anche le voci favorevoli.
Determinante il ruolo del Comune
Ma poi è stato determinante nel rovesciare la situazione e nel creare un clima positivo verso i profughi il ruolo avuto dal Comune, accanto al ruolo importante di alcune persone e degli stessi profughi.
Col tempo c’è chi è passato dall’ostilità all’amicizia.
Come è accaduto in altri Comuni italiani, sicuramente non pochi, il caso di Mori dimostra che la buona politica può costruire una buona accoglienza. Senza ricorrere a effetti speciali, ma con intelligenza e costanza.
L’accoglienza di piccoli gruppi: un sistema che funzionava
Mori è una borgata trentina di diecimila abitanti, composta da varie frazioni, che si distende nei pressi del fiume Adige e che è attraversata dalla statale che da Rovereto porta al Lago di Garda.
Ha un’amministrazione di centrosinistra guidata dal sindaco Stefano Barozzi. I cittadini stranieri sono circa il 9% della popolazione.
Dal settembre 2015 accoglie anche diversi rifugiati. In questi quattro anni ne sono transitati una cinquantina.
È uno dei 70 Comuni trentini (su 170) che hanno accettato di entrare nel sistema provinciale di accoglienza diffusa. Cioè piccoli gruppi accolti in tante comunità.
Un sistema varato con buoni risultati dal governo provinciale di centrosinistra che però nel 2018 è stato sostituito da uno di centrodestra a trazione leghista che lo sta smantellando, sulla scia delle distruttive politiche del governo nazionale.
Un coordinamente spontaneo e partecipato
Cosa ha fatto di buono il Comune di Mori?
Una cosa semplice, che ha funzionato e che funziona tuttora. Si è fatto promotore del Coordinamento associazioni accoglienza Mori che in questi quattro anni ha coinvolto la comunità nell’accoglienza dei rifugiati e riunendosi mensilmente ha affrontato tempestivamente tutti i problemi che via via emergevano.
Del coordinamento, insieme all’assessore comunale all’aiuto sociale, Roberto Caliari, fanno parte il parroco, don Augusto Pagan, gli operatori e le operatrici del Cinformi (la struttura della Provincia che ha la responsabilità, per conto dello Stato, della gestione dei rifugiati), l’associazione Atas (Associazione trentina accoglienza stranieri) e le cooperative sociali Arcobaleno e Punto d’Approdo, che gestiscono i progetti di accoglienza, la Caritas, il Gruppo Missionario, la bottega equosolidale Mandacarù, volontari e altri rappresentanti di associazioni.
Un coordinamento rappresentativo e spontaneo, che non costa nulla e che funziona perché le persone coinvolte lo fanno funzionare.
Insieme si affrontano tutti i problemi
Un luogo di confronto, di programmazione degli interventi, di condivisione delle informazioni, che così raggiungono ben presto una larga parte della comunità, smontando sul nascere notizie sbagliate.
Un luogo di assunzione di decisioni. Un bell’esempio di governo democratico e partecipato dell’accoglienza dei richiedenti asilo.
Nel coordinamento si affrontano tutti i problemi relativi all’accoglienza dei rifugiati, dalla sistemazione negli alloggi agli inserimenti lavorativi, dai corsi di lingua alle attività di servizio a favore della comunità.
Ma si promuovono anche le attività di informazione e formazione rivolte alla cittadinanza.
Informare i cittadini e coinvolgere i profughi
Sono stati diversi gli incontri pubblici promossi, sia per informare i cittadini sull’arrivo dei rifugiati, sia per offrire, con l’aiuto di esperti, occasioni di approfondimento sui vari aspetti del fenomeno migratorio: l’apporto dei migranti alla nostra economia, la questione demografica, il rapporto con l’Islam, i fenomeni di sfruttamento. La conoscenza è il punto di partenza per affrontare seriamente la questione.
Il coordinamento ha promosso il coinvolgimento dei rifugiati in varie attività, sia nel centro che nelle frazioni, come Valle San Felice.
La parrocchia, che ha sempre avuto un ruolo importante, ha messo a disposizione l’orto, fra l’altro nel cuore del paese, e loro lo coltivano anche con la collaborazione di alcuni volontari.
I prodotti in parte li consumano loro stessi, in parte vengono messi a disposizione di iniziative sociali, come la cena comunitaria in canonica.
I rifugiati partecipano anche alle attività dell’oratorio e ai momenti di vita comunitaria.
Promuovere l’autonomia delle persone
Il coordinamento verifica lo stato delle altre attività che vedono coinvolti i rifugiati nei progetti delle cooperative sociali, Atas e Arcobaleno, molto impegnate nell’accompagnarli perché progressivamente si rendano autonomi: i corsi di lingua italiana, i tirocini lavorativi, l’assistenza sanitaria, le pratiche burocratiche, la conoscenza dei servizi e degli uffici del territorio.
Oggi l’assessore Roberto Caliari, che è un po’ l’anima del coordinamento, può raccontare belle storie di integrazione, di inserimenti lavorativi riusciti e duraturi (diversi profughi sono stati assunti in aziende agricole, nel commercio, nell’artigianato) e anche storie di amicizia vera che sono nate tra alcuni rifugiati e alcune famiglie, come quella che ha visto protagonisti Samba e Manuela.
Può raccontare anche storie di accoglienza che non hanno avuto un esito positivo, ma accade.
La sostanza è che a Mori hanno saputo coinvolgere la comunità nell’accoglienza dei profughi, e i profughi, a loro volta, nella vita della comunità, rovesciando così un atteggiamento iniziale di freddezza e talvolta di ostilità.
E questo grazie al coordinamento, a un gruppo spontaneo che ha saputo funzionare bene e con costanza, non solo all’inizio per poi sparire, come talvolta capita alle iniziative nate da un impeto di generosità.
La buona e la cattiva politica
La cattiva politica drammatizza i problemi invece di affrontarli, e allora tutto diventa difficile. L’atmosfera si avvelena. I cittadini respirano un’aria cupa e si inquietano, si spaventano. È come se sulle loro spalle fossero state scaricate delle montagne.
Trasformare il problema dell’accoglienza dei migranti in una montagna impossibile da reggere è il disegno strategico dei partiti xenofobi e razzisti.
Ingigantire i problemi, caricarli di oscuri e minacciosi contorni, moltiplica le paure. È una formula che la politica peggiore usa da sempre e con disastrosi risultati per i popoli che ci hanno creduto.
La buona politica risolve e non drammatizza i problemi.
Non ha bisogno né di eroi né di effetti speciali.
Il problema si può risolvere
Tante esperienze nel nostro Paese dimostrano che quando la politica affronta con intelligenza la questione dei migranti, diffonde tra i cittadini serenità. Non un generale consenso, che raramente c’è anche sulle altre questioni.
Ma i cittadini avvertono che su di loro non viene scaricato un peso insopportabile. Una montagna dai contorni minacciosi. Il politico, o l’amministratore locale, ha dimostrato che il problema è risolvibile, come altri.
Diceva Bernanos, che le cose semplici non sono le più facili. Ma se ci si crede, anche le cose difficili possono diventare più facili.
Bisogna crederci, però. E a Mori dimostrano di credere in quello che fanno.
Aprile 2019. Pubblicato nel libro “Tempi feroci. Vittime, carnefici, samaritani”.