“… se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è al di fuori della verità, e davvero la verità si trovasse fuori di Cristo, preferirei comunque rimanere con Cristo piuttosto che con la verità.”
Duecento anni fa, l’11 novembre 1821, nasceva a Mosca F. M. Dostoevskij.
Duecento anni fa nasceva Dostoevskij
il più grande romanziere di tutti i tempi
Il più grande romanziere di tutti i tempi, Fëdor Michajlovič Dostoevskij, nasceva a Mosca duecento anni fa, l’11 novembre 1821 (il 30 ottobre secondo il calendario giuliano in vigore in Russia fino alla Rivoluzione d’ottobre).
Era il secondo di sette figli di Marija Fëdorovna Nečaeva, appartenente a una famiglia di mercanti, e di Michail Andreevič Dostoevskij, medico militare.
Nasce e cresce tra i malati poveri
La famiglia viveva in un’ala dell’ospedale dei poveri dove il padre prestava servizio. Il piccolo Fëdor visse i suoi primi dieci anni di vita tra i poveri, i malati, il via vai di un ospedale, le pause in giardino.
L’incontro precoce con la sofferenza umana segnò la sua vita e la sua opera di scrittore.
Tra le sue letture di quegli anni ci sono le Storie dell’Antico e del Nuovo Testamento, e tra queste, in modo particolare, la storia di Giobbe. Le domande di Giobbe a Dio sul perché della sofferenza del giusto e dell’innocente non lo lasciarono più. Tanto da chiudere la sua vita, nel 1881, dopo aver pubblicato l’anno prima il suo capolavoro, I fratelli Karamazov, dove le domande di Giobbe raggiungono una tale forza e profondità da poter essere accostate a quelle del testo biblico.
Una madre colta e mite, un padre cupo e despota
Negli anni ’30 il padre acquista il borgo di Darovoe e il villaggio di Cermašnja, con cinquecento ettari e un centinaio di servi della gleba.
La madre, donna mite, intelligente, colta, vittima della gelosia ossessiva e sconsiderata del marito, despota dal cupo carattere, muore di tisi nel ’37.
Il padre viene ucciso durante uno scontro (o per vendetta?) con alcuni servi nel ’39. Non c’è dubbio che nella figura del padre nel romanzo I fratelli Karamazov si possono trovare aspetti della personalità del padre dello stesso scrittore.
I figli piccoli vengono affidati ai parenti. I due maggiori, Fëdor e Michail, il primogenito, sono stati nel frattempo mandati dal padre alla Scuola Superiore di Ingegneria di San Pietroburgo, una scuola del Genio militare.
Ma la vita militare non è per loro. Entrambi hanno un temperamento fortemente incline alle lettere e alle arti. Entrambi sceglieranno ben presto questa strada.
Fëdor nel 1843 conclude gli studi e ottiene un incarico in un reparto di ingegneri cartografi. Ma l’anno dopo si congeda per dedicarsi all’attività di scrittore.
Nasce lo scrittore, ma finisce presto in Siberia
Pubblica Povera gente che ha subito un enorme successo presso i circoli letterari più importanti e i lettori delle riviste dove si pubblicano racconti e romanzi. Seguono Il sosia e altri racconti e romanzi brevi (Le notti bianche, Netočka Nezvanova …).
Frequenta il circolo letterario – politico di orientamento socialista di M. V. Butaševič-Petraševskij dove si discute di argomenti come la servitù della gleba, il sistema giudiziario, la libertà di stampa e di libri proibiti dalla censura dello zar Nicola I.
Nell’aprile del 1849 Dostoevskij viene arrestato, e con lui altre 33 persone che frequentavano il circolo di Petraševskij. Ventuno imputati sono condannati a morte.
Il 22 dicembre vengono portati in piazza per la fucilazione. Ma un attimo prima dell’esecuzione arriva la grazia dello zar. La condanna a morte viene commutata nella pena di quattro anni di lavori forzati e il successivo arruolamento nell’esercito come soldato semplice (l’atroce messa in scena verrà descritta da Dostoevskij nel romanzo L’idiota).
Alla vigilia di Natale, Dostoevskij saluta il fratello Michail e parte per la deportazione nella fortezza di Omsk, in Siberia, dove arriva il 23 gennaio 1850 e dalla quale uscirà esattamente quattro anni dopo, il 23 gennaio 1854. Quattro anni di carcere durissimo che racconterà nelle Memorie di una casa di morti. Ma anche anni di riflessione e di esperienze umane fortissime che lo cambieranno.
Quando esce dal carcere viene inviato come soldato semplice a un battaglione di stanza a Semipalatinsk, sempre in Siberia.
Le eroiche mogli dei deportati politici gli donano il Vangelo
Nei giorni in cui si appresta a lasciare Omsk, oltre a una lunga lettera al fratello Michail, ne scrive una, molto importante, a Natal’ja Dmìtrievna Fonvìzina, moglie del decabrista Ivàn Aleksandrovič Fonvìzin.
I decabristi russi erano un po’ come i mazziniani del Risorgimento italiano: repubblicani, riformatori, cospiratori. La cospirazione decabrista del 1825 contro lo zar Nicola I era stata duramente stroncata con fucilazioni e deportazioni in Siberia.
Molte mogli seguivano i mariti in Siberia per stare loro vicino. La Fonvìzina, che aveva all’epoca vent’anni, seguì il marito Ivàn nell’ergastolo siberiano dove rimasero per 25 anni.
La Fonvìzina era, probabilmente, una delle mogli dei decabristi che incontrarono Dostoevskij e gli altri condannati durante una sosta nel loro viaggio verso il carcere di Omsk.
Quell’incontro, memorabile, fu descritto da Dostoevskij nel Diario di uno scrittore (anno 1873, “Gente di altri tempi”):
“… a Tobòlsk, quando, aspettando la nostra sorte, eravamo in una prigione di transito, le mogli dei decabristi a furia di preghiere riuscirono ad ottenere che il direttore della prigione organizzasse di nascosto nel suo alloggio un incontro con noi.
Vedemmo queste grandi martiri che avevano seguito volontariamente i loro mariti in Siberia. Esse avevano abbandonato tutto: la posizione sociale, la ricchezza, le amicizie, i parenti, avevano fatto sacrificio di tutto per un altissimo dovere morale, il più libero fra tutti i doveri. Innocenti, per ben venticinque anni esse sopportarono tutto quello che sopportarono i loro mariti condannati.
L’incontro durò un’ora. Esse ci benedissero sulla nostra nuova via e con un segno di croce regalarono ad ognuno di noi un Vangelo, l’unico libro permesso nella prigione. Lo leggevo qualche volta e lo leggevo agli altri. Su di esso insegnai a leggere a un forzato. “
Se Cristo non fosse la verità, preferirei comunque Cristo
Quando Dostoevskij esce dal carcere, quattro anni dopo, e scrive alla Fonvìzina, lei è già tornata col marito a Mosca, l’anno prima, finito il lungo periodo della deportazione. Era una donna molto religiosa e viveva questa religiosità con una incessante azione di bene verso il prossimo.
Ecco il passaggio, giustamente famoso, della lettera che Dostoevskij le scrive da Omsk all’inizio del 1854:
“Vi dirò di me che io sono un figlio del secolo, sono un figlio del dubbio e della miscredenza, fino a oggi e (lo so) finché campo.
Questa sete di fede mi è costata e mi costa spaventose sofferenze, ed essa cresce nel mio animo tanto più forte quanto più in me albergano conclusioni opposte.
E tuttavia, Dio mi concede a volte degli attimi in cui sono assolutamente in pace; in quei momenti amo e vedo che sono amato dagli altri, e in quei momenti ripongo in me il simbolo della fede nel quale per me è tutto limpido e santo.
Questo simbolo è molto semplice, ed è questo: credere che non ci sia niente di più bello, profondo, disponibile, sensato, coraggioso e perfetto di Cristo e non solo non c’è, ma mi dico con amore geloso, che nemmeno può esistere.
Inoltre, se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è al di fuori della verità, e davvero la verità si trovasse fuori di Cristo, preferirei comunque rimanere con Cristo piuttosto che con la verità.” (da F. M. Dostoevskij, Lettere, a cura di Alice Farina, traduzione di Giulia de Florio, Alice Farina e Elena Freda Piredda, Il Saggiatore, Milano 2020, pp. 220-221).
Dostoevskij otterrà cinque anni dopo, nel 1859, il permesso di lasciare l’esercito. Farà soltanto lo scrittore. Il fratello Michail, col quale collaborerà molto, aveva nel frattempo fondato una rivista letteraria. Ma morirà pochi anni dopo, nel 1864. Fëdor si farà carico anche della sua famiglia.