“In verità, sulla terra noi vaghiamo un po’ a caso e se non avessimo davanti agli occhi la preziosa immagine di Cristo, ci smarriremmo e ci perderemmo del tutto, come il genere umano prima del diluvio.”
Fëdor Dostoevskij, il grande scrittore russo di cui abbiamo da poco ricordato i 200 anni dalla nascita, mette in bocca al monaco Zosima, nel grandioso romanzo I fratelli Karamazov, le parole della sua fede.
Una fede che per tutta la sua vita ha continuato a scontrarsi, senza scappatoie intellettuali e senza furbizie clericali, con le ragioni dell’ateismo.
Nessuno come Dostoevskij ha saputo mostrare, guardando in faccia le verità più sconvolgenti della condizione umana, l’impossibilità di credere e, nello stesso tempo, l’impossibilità di non credere.
Questa fede mi è costata e mi costa spaventose sofferenze – scrive in una lettera del 1854 – ed essa cresce nel mio animo tanto più forte quanto più in me albergano conclusioni opposte.
E tuttavia, Dio mi concede a volte degli attimi in cui sono assolutamente in pace; in quei momenti amo e vedo che sono amato dagli altri, e in quei momenti ripongo in me il simbolo della fede nel quale per me tutto è limpido e santo.
Questo simbolo è molto semplice, ed è questo: credere che non ci sia niente di più bello, profondo, disponibile, sensato, coraggioso e perfetto di Cristo e non solo non c’è, ma mi dico con amore geloso che nemmeno può esistere.
E allora il grande russo può arrivare a dire, in quella meravigliosa lettera, qualcosa che nessuno ha mai osato dire:
Inoltre, se qualcuno mi dimostrasse che Cristo è al di fuori della verità, e davvero la verità si trovasse fuori di Cristo, preferirei comunque rimanere con Cristo piuttosto che con la verità.
Ci può essere un più grande atto di fede nel Gesù di Nazareth? Nel suo essere indispensabile per la nostra sopravvivenza? Forse il segreto del Natale è questo. L’immensa fiera che lo accompagna e la sparizione progressiva di parole e simboli cristiani nascondono in realtà il bisogno di quella indispensabile presenza. Abbiamo bisogno per non smarrirci e perderci del tutto di quella presenza, anche quando non la nominiamo.
Una presenza di cui non possiamo fare a meno, ma disturbante.
Ci ricorda che c’è il bene e che c’è il male e che noi abbiamo la libertà di scegliere. Nessuno ci può togliere questa libertà e noi non possiamo coprirci dietro nessuna scusa per non decidere per il bene o per il male.
E il bene e il male non hanno niente a che fare con i criteri di questo mondo. Che in nome del successo, del denaro, del potere, della patria, del partito, dell’azienda umilia continuamente la verità, chiama bene il male e male il bene.
Il mondo vive della menzogna e schiaccia i deboli. Le chiese e il potere hanno continuato in questi duemila anni ad addomesticare la presenza disturbante di Cristo cercando di renderlo innocuo. Di adattarlo al proprio modo di vivere.
E così l’abbiamo adattato alle ragioni del forte di turno, o dello Stato (quanti orrendi crimini in nome della nazione si sono commessi e si commettono!), che si è servito, e continua a servirsi, spudoratamente, della preziosa immagine di Cristo per dominare, fare guerra, uccidere, opprimere, sfruttare. Anche oggi, anche sotto i nostri occhi.
Come la cristiana Polonia che bastona e lascia morire di freddo i migranti ai suoi confini. Il loro pianto, il pianto dei loro bambini, è il pianto di Gesù Bambino. Un pianto che diventa urlo.
Urlo dei 163 migranti affogati in questi giorni nel mare di Libia senza che nessuno lo ascoltasse, urlo delle vedove dei morti sul lavoro, urlo delle donne ammazzate dai loro compagni di vita, urlo delle migliaia di bambini che ogni giorno muoiono di fame o di malattia perché non c’è un vaccino per loro.
Urlo dei bambini abusati dal clero, un urlo a lungo vergognosamente inascoltato.
Urlo degli infelici che muoiono nei tanti luoghi insanguinati del pianeta per le bombe e le armi che la nostra civiltà che osa chiamarsi cristiana produce e vende per arricchirsi.
La preziosa immagine di Cristo continua a dirci cosa è il bene e cosa è il male, l’opposto di quello che dice e pratica il mondo, anche quello che si definisce cristiano.
Sul letto di morte, nel 1881, a sessant’anni, Fëdor Dostoevskij (come ricordò la figlia Ljubov che morì a Bolzano, profuga e malata, e che lì riposa, nel cimitero di Gries) fece chiamare i due figlioletti, Fëdor e Ljubov, e volle che fosse letta la parabola del Figliol prodigo.
Era il Dio misericordioso che il grande scrittore consegnava ai figli. Disse loro:
Abbiate un’assoluta fiducia in Dio e non disperate mai del suo perdono.
Quali parole migliori potremmo trovare per augurare ai nostri lettori Buon Natale?
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Editoriale di Vincenzo Passerini pubblicato sul settimanale diocesano “Vita trentina” del 22 dicembre 2021, data di testata domenica 26 dicembre 2021.