Lo storico Marcello Flores intervista Giulia De Florio e Sergej Bondarenko, esponenti dell’associazione Memorial che ha vinto il premio Nobel per la Pace 2022, insieme al Centro per le libertà civili dell’Ucraina e al dissidente bielorusso Ales Bialiatski, che sarà consegnato il 10 dicembre.
Hanno curato il libro, “Proteggi le mie parole”, che raccoglie i discorsi pronunciati dagli imputati politici sotto il regime di Putin.
Le ultime parole dell’altra Russia
di Marcello Flores
“La Lettura”, supplemento del “Corriere della sera”, 27 novembre 2022
SERGEJ BONDARENKO GIULIA DE FLORIO (a cura di) Proteggi le mie parole Prefazione di Marcello Flores, traduzioni di Ester Castelli, Luisa Doplicher, Axel Fruxi, Andrea Gullotta, Sara Polidoro, Francesca Stefanelli, Claudia Zonghetti EDIZIONI E/O Pagine 192, e 16,50 In libreria dal 30 novembre.
I curatori Sergej Bondarenko ha 37 anni. Dal 2009 lavora presso Memorial Internazionale. Negli ultimi anni si è dedicato allo studio dei fascicoli d’indagine degli anni Trenta. Giulia De Florio (38 anni) è ricercatrice all’Università di Parma. Si occupa di letteratura per l’infanzia russa, di poesia cantata e di magnitizdat (registrazioni audio clandestine diffuse all’epoca dell’Unione Sovietica). È nel direttivo di Memorial Italia.
L’associazione
Memorial, vincitrice del premio Nobel per la Pace 2022, nasce ufficialmente in occasione di una conferenza tenuta a Mosca nei giorni 28-29 gennaio 1989, ma raccoglie le istanze avanzate sin dagli anni Settanta dagli ambienti della dissidenza sovietica, che avevano trovato in seguito spazi legali per esprimersi grazie alla glasnost (trasparenza) concessa, a partire dal 1985, dal nuovo leader sovietico Mikhail Gorbaciov.
Il primo presidente di Memorial è stato il fisico dissidente Andrej Sakharov, premio Nobel per la Pace nel 1975, deceduto il 14 dicembre 1989.
In una prima fase l’associazione si occupava soltanto di riportare alla luce e curare il ricordo delle vittime delle repressioni in epoca staliniana, ma dopo due anni ha creato un Centro Memorial per la difesa dei diritti civili, con lo scopo di denunciare le violazioni compiute dalle autorità russe.
Nel 1992, dopo la dissoluzione dell’Urss, Memorial si è costituita come organizzazione non governativa internazionale e con il tempo sono nate filiali in undici Paesi oltre la Russia, tra cui Germania, Italia e Francia.
A partire dal 2022, con l’approvazione della legge russa sugli «agenti stranieri», Memorial è finita nel mirino della magistratura, che ne ha decretato la chiusura e la liquidazione, eseguite dalle autorità il 5 aprile.
L’intervista
Il 10 dicembre l’associazione Memorial Internazionale, fondata in Russia da Andrej Sakharov nel 1989 (e pochi mesi fa chiusa) ma attiva anche altrove, riceverà a Oslo il premio Nobel per la Pace.
A ritirarlo saranno il presidente dell’organizzazione, Yan Rachinsky, e Lana Estemirova, figlia della giornalista Natalia Estemirova, assassinata nel 2009.
Il premio è stato assegnato a Memorial (e nel contempo al Centro per le libertà civili dell’Ucraina e al dissidente bielorusso Ales Bialiatski) per via della sua azione in difesa dei diritti umani.
Un impegno visto con sfavore dall’attuale regime russo del presidente Vladimir Putin, così come l’altra attività svolta da Memorial, intesa a mantenere vivo il ricordo delle vittime della repressione in epoca sovietica.
Per queste ragioni, con il pretesto dei fondi ricevuti dall’estero, l’associazione è stata accusata di essere un «agente straniero» ed è stata soppressa dalla Corte Suprema russa con una sentenza divenuta definitiva il 28 febbraio.
Nel volume «Proteggi le mie parole», in libreria dal 30 novembre per le Edizioni e/o, Memorial ha raccolto i discorsi tenuti negli ultimi anni dagli imputati politici russi davanti alle corti che li giudicavano.
Il diritto di pronunciare un «ultimo discorso» prima del verdetto, per sostenere la propria innocenza, è un diritto riconosciuto agli accusati. Il prefatore del volume, lo storico Marcello Flores, ha intervistato per «la Lettura» i curatori Giulia De Florio, membro del direttivo di Memorial Italia, e Sergej Bondarenko, esponente di Memorial Internazionale.
Perché le persone pronunciano questi discorsi, all’apparenza inutili, dal momento che non influenzano mai la sentenza? E perché avete pensato a un libro del genere?
GIULIA DE FLORIO — Sono discorsi rivolti alle persone in grado di ascoltarli, e ben oltre le mura di un tribunale. Non conta soltanto ciò che dicono, ma il fatto stesso che possano dirlo. Questa è l’ultima occasione, per una persona russa, di fare una dichiarazione libera. Il nostro libro è un atto di solidarietà, una mano tesa alle persone che si sono ritrovate costrette a pronunciare questi discorsi. Che siano consapevoli o meno, gli autori di questi testi sono parte di una grande tradizione che risale ai tempi dell’Unione Sovietica. L’aumento esponenziale di queste dichiarazioni — e cioè dei processi per motivi politici — li ha trasformati in una sorta di consuetudine. È possibile costruire, attraverso queste parole, una sorta di ritratto dell’epoca in cui viviamo. Per questo ci è sembrato importante pubblicare questo volume.
SERGEJ BONDARENKO — Posso aggiungere un paio di considerazioni sul sistema giudiziario russo contemporaneo. E dire che non esiste più, questo sistema. È rotto, infranto; e non gli si può accordare la minima fiducia. Questo è spaventoso. Eppure, persino in questa situazione, che molti definiscono «fascista», resta comunque una via d’uscita. È la stessa procedura giuridica che contempla l’«ultima parola», cioè una dichiarazione non controllabile dal giudice (la si può eliminare, ma per il momento, per fortuna, non l’hanno ancora fatto). Le persone si attaccano a questi frammenti di un sistema giudiziario ormai esploso. Inoltre, queste ultime dichiarazioni — e non l’abbiamo notato soltanto noi — hanno sostituito gli interventi pubblici in piazza. Già dieci anni fa le proteste non erano poche, ma si pensava che i comizi non fossero così importanti perché «non risolvevano nulla». Ora ci hanno tolto anche quelli. L’unica cosa che ci è rimasta sono queste «ultime parole».
Qual è allora il «ritratto dell’epoca» che si può ricostruire leggendo questi testi?
SERGEJ BONDARENKO — Il nostro obiettivo era selezionare i discorsi senza pensare troppo a quale quadro d’insieme ne sarebbe scaturito. Per noi era importante fare conoscere una serie di situazioni: non soltanto casi di attivisti politici, di figure pubbliche note o molto note, ma anche di persone che fino a quel momento non erano mai intervenute pubblicamente. Va da sé, tuttavia, che avevamo criteri precisi a guidarci: si tratta di persone arrestate e condannate per ragioni politiche (direttamente espresse o mascherate dietro altre accuse). Questo dà già un’idea del contesto in cui ci muoviamo.
GIULIA DE FLORIO — Da tempo la società russa nutriva l’illusione che se non «ti immischi nella politica», se curi soltanto il tuo orticello, non ti succederà nulla. Questi testi dicono il contrario. La repressione dello Stato arriva ovunque. Non importa quanti anni hai; non importa la tua nazionalità — se sei russo, ceceno, inguscio… Nel libro c’è il discorso di un quattordicenne e c’è quello di un uomo di 63 anni. Questa situazione riguarda tutti.
SERGEJ BONDARENKO — C’è anche una triste ironia in tutto questo: guardando chi pronuncia queste ultime dichiarazioni si possono trarre considerazioni sociologiche sulla Russia contemporanea. E questo, già di per sé, la dice lunga sulla situazione in cui ci troviamo.
Avete parlato di una tradizione che risale all’epoca sovietica: quali sono le somiglianze e le differenze rispetto a quel tempo?
SERGEJ BONDARENKO — Per me il senso della tradizione significa che anche quando gli autori dei testi selezionati non hanno letto, ad esempio, i discorsi politici dei dissidenti sovietici, la pratica li porta a ripetere le stesse formule. E se vivremo abbastanza per vedere la fine della guerra in Ucraina, questi discorsi, conservati in forma scritta, saranno una continuazione di quella tradizione. Il senso di questi discorsi non si limita alla guerra e a ciò che sta accadendo ora. Sarebbe bene avvicinarsi almeno un po’ a questo significato più grande. Gli si deve dare il giusto spazio.
GIULIA DE FLORIO — Negli anni Trenta in Unione Sovietica si tenevano processi politici aperti, in cui gli imputati, recitando un copione prestabilito, si incriminavano pubblicamente e facevano pubblica ammenda davanti al popolo e al Partito comunista. Negli anni Sessanta e Settanta i discorsi in tribunale sono diventati una modalità di espressione pubblica; le loro trascrizioni sono finite nel samizdat (la pubblicazione e diffusione di testi clandestini), sono state ricopiate e pubblicate in forma di libri e antologie. Il nostro volume, ovviamente, fa riferimento anche a questa tradizione. Per quanto ormai si pensi che non ci sia più nulla da dire, che il tribunale decide tutto e non cambierà nulla.
Ha senso parlare di una componente letteraria nei testi? E che ruolo ha il contesto in cui vengono pronunciati?
SERGEJ BONDARENKO — Riprendo da prima: forse non è vero che «non cambierà nulla», ma succederà in un’altra prospettiva temporale. Non per quel particolare processo, certo, ma in altri momenti, in altre circostanze, queste stesse parole avranno un grande valore, daranno alle persone la percezione di che cosa fossero questi processi politici. Un processo è prima di tutto una competizione, un tentativo di trovare la verità attraverso la presentazione di diversi punti di vista. Anche se ora in Russia c’è una pallida imitazione di questo sistema, il tentativo di prendere sul serio questo compito, ovvero pronunciare un discorso come se il processo stesse davvero decidendo qualcosa — fosse un giudizio autentico — è ciò che rende il discorso stesso materiale artistico. La cosa spaventosa è che il tribunale alla fine decide davvero: imita la procedura, ma alla fine condanna le persone a pene detentive reali e spezza le loro vite.
GIULIA DE FLORIO — A mancare nel tribunale è proprio la giustizia. È un mondo sottosopra: le persone processate parlano di cose importanti, del mondo vero, per quello che è, mentre i giudici, che dovrebbero essere l’incarnazione vivente di valori fondamentali — la giustizia, la dignità, l’onestà intellettuale — balbettano formule vuote, simulano una procedura.
Quale cultura sta dietro questi discorsi?
SERGEJ BONDARENKO — Il genere adottato impone molte scelte. Le «ultime parole» nei processi politici hanno molto in comune con la confessione. A partire dai processi staliniani si può notare come lo Stato abbia sempre sottratto agli imputati la possibilità di essere i primi interpreti della propria vita, di parlare a nome proprio di ciò che è accaduto. Queste dichiarazioni restituiscono alle persone il loro diritto più elementare e inalienabile: quello di giudicare da sole la propria vita, di spiegare a sé stesse e agli altri quello che pensano di sé. Con questo volume speriamo di prolungare il tempo in cui queste parole continuano a risuonare forti.
Molti tra questi discorsi sono tenuti da giovani. C’è una dinamica generazionale nella pratica di opposizione al regime?
GIULIA DE FLORIO — In parte sì, ha a che fare con un cambiamento generazionale, con una nuova generazione di persone impegnate di cui si è parlato molto in Russia negli ultimi anni. Un numero sempre maggiore di giovani ha iniziato a scendere in piazza prima della pandemia e prima ancora della guerra in Ucraina.
SERGEJ BONDARENKO — Ricordo bene che non era così fino a circa dieci anni fa. Io stesso ero uno studente, andavo alle proteste, ma in generale non facevo molto. E mi dava molto fastidio la mia stessa indifferenza, la mancanza di una protesta organizzata. Tutti dipendevano dalle università, dai loro dirigenti; sembrava più importante per tutti superare quei cinque o sei anni di formazione, non abbandonare gli studi, ottenere un’istruzione. Perché lottare per qualcosa che non si può vincere, rischiando di perdere il proprio futuro? Ma pochi anni fa in Russia c’è stata una svolta. Sembrava che tutti avessero già capito che anche un’istruzione superiore ha poco senso se non c’è nulla da fare e siamo tutti bloccati in un mondo in cui le cose vanno peggiorando. Non è soltanto una questione di coscienza, è anche una questione di buon senso.
I russi che cosa sanno di questi discorsi dal carcere? Che notizie hanno e da dove le traggono?
GIULIA DE FLORIO — La sociologia russa contemporanea non è affidabile. Con il livello di propaganda in funzione in Russia, è difficile calcolare, anche solo per approssimazione, quante persone siano a conoscenza dei processi politici o abbiano letto le trascrizioni delle «ultime parole». L’unica cosa che si può osservare è che questi discorsi vengono spesso pubblicati dai media indipendenti russi e che lo stesso numero di piattaforme di informazione libera (fuori dal Paese) è aumentato.
SERGEJ BONDARENKO — È vero, ma allo stesso tempo il tribunale e i reati penali di per sé sono realtà ben note alla maggioranza della società russa. Un numero enorme di persone ha a che fare con queste realtà, molte più di quante siano mai andate a seguire i comizi politici. Quindi più o meno tutti in generale sanno che i tribunali sono corrotti, che le sentenze sono ingiuste, che questo accade ogni giorno e in tutta la Russia. E per questo, paradossalmente, non è nemmeno necessario conoscere i prigionieri politici o leggere i loro discorsi. Il genere stesso — la dichiarazione in tribunale — è praticamente diventato una parte del folklore russo contemporaneo.
C’è o c’è stata indifferenza rispetto a questi casi? Perché non sono stati resi noti, come è avvenuto con il drammatico omicidio della giornalista Anna Politkovskaja o l’arresto del dissidente Aleksej Naval’nyj?
SERGEJ BONDARENKO — Queste vicende si comprendono soltanto a posteriori. Nel 2014, a Mosca e in altre città, si sono tenute manifestazioni contro la guerra con molte migliaia di persone che si battevano per la pace, sventolando le bandiere ucraine dopo l’annessione della Crimea. E già all’epoca ci dicevamo che «non è abbastanza», che «non risolve nulla» e così via. Allo stesso tempo, guardando la situazione da una prospettiva odierna, è vero che «si poteva fare ancora molto», le persone protestavano e potevano esprimere pubblicamente la loro opinione. Ora non è più questo il punto. Noi cerchiamo di mettere per iscritto, di testimoniare, la nostra posizione. E speriamo di vedere qualche cambiamento nelle nostre vite; soltanto allora diventerà chiaro quanto fossero importanti e necessarie le persone che hanno pronunciato le loro «ultime parole» in tribunale.
GIULIA DE FLORIO — Da persona che frequenta la Russia ma non ci è nata, direi che dall’esterno non c’è stata una copertura sufficiente di questi eventi, soprattutto da parte della nostra stampa, dei media occidentali. Sì, s’è detto e s’è scritto qualcosa sugli omicidi di Anna Politkovskaja o del dissidente politico Boris Nemtsov nel 2015 perché erano omicidi di alto profilo, omicidi politici. Ma le proteste in Russia non facevano notizia. Così è naturale pensare che non sia mai successo nulla, che le persone non abbiano combattuto per i loro diritti e per le loro libertà. Abbiamo parlato troppo del potere dello Stato, e c’è persino chi lo ha difeso e lo difende, quello Stato criminale, anche in Italia, e abbiamo dato meno spazio alla reazione dell’opinione pubblica russa. Abbiamo perso traccia di periodi importanti di questa evoluzione: questi processi, i loro eroi, non sono spuntati all’improvviso dal nulla. Questo dovremmo sempre tenerlo bene a mente.