“Potevamo salvarli e non li abbiamo salvati. Quei 72 morti, tra cui 28 bambini, e poi forse altri 20 o 30 dispersi, nel naufragio di Crotone pesano come una vergogna inamovibile sulla coscienza del nostro Paese. In primo luogo del governo. Un governo che considera i profughi un problema di sicurezza, non un dramma umano. E che ha varato norme che limitano l’azione di soccorso dei naufraghi da parte delle navi delle ong.”
È la speranza che muove il mondo
di Vincenzo Passerini
Editoriale pubblicato sul settimanale diocesano “Vita trentina” uscito giovedì 9 marzo 2023 , data di testata domenica 12 marzo 2023.
Potevamo salvarli e non li abbiamo salvati. Quei 72 morti, tra cui 28 bambini, e poi forse altri 20 o 30 dispersi, nel naufragio di Crotone pesano come una vergogna inamovibile sulla coscienza del nostro Paese. In primo luogo del governo. Un governo che considera i profughi un problema di sicurezza, non un dramma umano. E che ha varato norme che limitano l’azione di soccorso dei naufraghi da parte delle navi delle ong.
Quando è questa cultura politica che ispira l’azione dei ministeri, può accadere quello che è accaduto a Crotone. Segnalato alle 23 di sabato da Frontex a 27 indirizzi mail, il barcone dei profughi è naufragato nella tempesta alle 4 di domenica. C’erano 5 ore di tempo per soccorrerlo. Ma non è stato soccorso. Anche se fin dal pomeriggio il meteo aveva annunciato un’imminente burrasca. Invece di mandare a soccorre i profughi la Guardia costiera, che svolge benissimo questo compito quando glielo lasciano svolgere, e che ha salvato centinaia di migliaia di naufraghi anche in condizioni difficili, è stata mandata la Guardia di finanza. Che è tornata indietro per il mare in tempesta.
Come è potuta accadere una cosa simile? Il ministro Piantedosi ha cercato di giustificarsi in Parlamento. Ma non c’è riuscito, perché non poteva riuscirci. Quello che è successo è ingiustificabile. È vergognoso. Disumano. Dobbiamo gridarlo. Perché quei poveri morti lo impongono. Perché altri profughi non muoiano a causa di questa malata e disumana cultura politica della sicurezza che disprezza umanità e solidarietà. E che ispirò nel 2018 i famigerati decreti sicurezza. Dobbiamo gridarlo e non accettare scusanti.
I naufraghi vanno salvati, sempre. Sempre. Altrimenti è la fine della nostra civiltà. Questa è la vera fine della nostra civiltà. Europea e cristiana, come spesso si dice (ma cosa è rimasto di questi due aggettivi?). Non sono gli immigrati che minacciano la nostra civiltà. Siamo noi che ne distruggiamo giorno dopo giorno i fondamenti. Che ne distruggiamo lo spirito del Vangelo, di Dante, di san Francesco, degli umanisti.
Quello spirito che animò le appassionate parole di papa Francesco, l’8 luglio 2013 a Lampedusa, commemorando un altro naufragio: “«Dov’è il tuo fratello?», la voce del suo sangue grida fino a me, dice Dio. Questa non è una domanda rivolta ad altri, è una domanda rivolta a me, a te, a ciascuno di noi. Quei nostri fratelli e sorelle cercavano di uscire da situazioni difficili per trovare un po’ di serenità e di pace; cercavano un posto migliore per sé e per le loro famiglie, ma hanno trovato la morte. Quante volte coloro che cercano questo non trovano comprensione, non trovano accoglienza, non trovano solidarietà!”»
Quello spirito che anima i fondamenti della nostra Costituzione. “La Repubblica riconosce e garantisce i diritti inviolabili dell’uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità, e richiede l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà politica, economica, sociale”, recita l’articolo 2. Diritti inviolabili dell’uomo, di ogni uomo, donna, bambino, vecchio. Doveri inderogabili di solidarietà. Se questi diritti e doveri finiscono, siamo finiti noi.
Il ministro Piantedosi ha anche detto che i migranti non dovrebbero partire sapendo i rischi che corrono. Il ministro ignora la storia delle migrazioni. Anche delle nostre. Ignora il “Canto degli emigranti” di fine Ottocento. Gli storici americani di origine italiana, Jerre Mangione e Ben Morreale, l’hanno posto all’inizio del loro libro sulla nostra emigrazione in America, “La storia. Cinque secoli di esperienza italo-americana”.
Gli ultimi versi sono questi, e li ho ricordati tanti volte in questi anni: “La terra dei nostri padri è un macello. / Vestiti di stracci, in grandi greggi, noi, carichi di un incredibile dolore, ci recammo nella terra grande e lontana. / Alcuni di noi affogarono davvero. / Alcuni di noi morirono davvero di stenti. / Ma per ogni dieci che morirono un migliaio sopravvisse e tenne duro. / Meglio affogare nell’oceano che essere strangolati dalla miseria. / Meglio ingannarsi da sé che essere ingannati dai lupi. [i lupi sono quelli che ti sfruttano e ti opprimono nel tuo Paese] / Meglio morire a modo nostro che essere peggio delle bestie.”
Un’indistruttibile speranza spinge da sempre i migranti ad affrontare i pericoli. L’ignoto. Il salto nel buio. È questa indistruttibile speranza che muove il mondo. E che lo salva. Ma siamo ancora capaci noi di pronunciarla la parola speranza?
Immagini tratte da “Cutro, i volti e le storie della tragedia” degli inviati del “Corriere della sera”