«Insegnare la lingua italiana significa aiutare a strutturare il pensiero. Il dono ci consente di uscire dalla dimensione retributiva che ci imprigiona. Io ti do e tu mi dai. No, non così. Noi dovremmo credere in ciò che facciamo a prescindere dal risultato che potremo ottenere. Questa posizione etica è sempre stata storicamente rivoluzionaria, ma oggi lo è ancora di più perché viviamo sotto l’impero del numero.» (Eraldo Affinati)
«La mia scuola per i migranti valorizza il dono»
Intervista a Eraldo Affinati
di Francesca Fattinger, pubblicata sul quotidiano “il T”, 18 maggio 2023
Una «scuola-non scuola» che punta innanzitutto a curare i legami affettivi fra chi vi partecipa, quella nata nel 2008 a Roma dal sogno di due persone che hanno creduto e credono ogni giorno nella qualità della relazione umana, fuori dalle logiche del numero che domina sterilmente le nostre vite: sono Eraldo Affinati e sua moglie Anna Luce Lenzi.
Grazie a loro e a un paio di professoresse appassionate è cominciata l’avventura che conosciamo sotto il nome di «Scuola Penny Wirton» che negli ultimi anni è arrivata a contare 58 sedi sparse in tutta Italia, tra cui quella trentina, nel Convento dei Cappuccini, coordinata da Luca Bronzini.
Una scuola in cui si insegna gratuitamente alle migranti e ai migranti la lingua italiana, perché questo «significa aiutare a strutturare il pensiero».
Un luogo fatto di persone che si guardano negli occhi, che non si idealizzano né criminalizzano, ma si vogliono conoscere a carte scoperte, come si dovrebbe fare in ogni contesto sociale: «Se noi riuscissimo ad assumere la responsabilità dello sguardo altrui potremmo contribuire, nel nostro piccolo, al miglioramento dell’umanità».
Eraldo Affinati sarà presente oggi, 18 maggio, alle ore 18 alla consegna di un riconoscimento al prof. Claudio Stedile alla Sala Aurora di Palazzo Trentini a Trento, visiterà la scuola Penny Wirton e domani mattina sarà alla Scuola Sophie Scholl per incontrare studenti e studentesse.
Partiamo da lei, critico letterario, saggista, giornalista, scrittore e docente, come queste anime si intrecciano nella sua vita?
«Scrittura e insegnamento per me sono quasi la stessa cosa: per sapere se veramente conosco un argomento devo prima spiegarlo ai ragazzi. La parola senza esperienza la sento sterile. La vita senza scrittura mi sembra vuota. Non è stato sempre così: ho avuto un’adolescenza solitaria e inquieta, anche in ragione delle mie origini familiari: una madre sfuggita alla deportazione durante la Seconda guerra mondiale, un padre orfano. Negli anni ho cercato di asciugare negli studenti che mi capitavano davanti le lacrime che i miei genitori avevano inghiottito dentro di loro».
Nel 2008 ha fondato con sua moglie la Scuola Penny Wirton per l’insegnamento gratuito della lingua italiana ai migranti. Com’è nato questo progetto e come sta proseguendo negli anni?
«È nato quindici anni fa, al tempo in cui insegnavo alla Città dei Ragazzi di Roma dove ho conosciuto tanti minorenni non accompagnati. Alcuni di loro mi hanno portato nei Paesi dai quali provenivano: Marocco, Gambia, Albania… Ci ho scritto dei libri: La città dei ragazzi, per l’appunto, Vita di vita. Al ritorno la scuola con il voto e la campanella mi andava stretta, allora insieme a mia moglie, Anna Luce Lenzi, docente di lettere, abbiamo fondato la Penny Wirton, in omaggio a Silvio D’Arzo, scrittore grazie al quale ci siamo conosciuti, per l’insegnamento gratuito della lingua italiana agli immigrati. Uno a uno, senza classi, senza burocrazie e senza soldi. All’inizio eravamo io, lei e un paio di professoresse avventurose e appassionate. Oggi a Roma siamo un centinaio di volontari per altrettanti immigrati. Le associazioni che si richiamano al nostro stile educativo si sono moltiplicate: attualmente siamo 58 in ogni parte d’Italia, ma crescono sempre di più. Quella trentina, nella Chiesa dei Cappuccini, coordinata da Luca Bronzini, è molto attiva».
Nel 2019 Fabio Pierangeli le ha dedicato una monografia intitolata «La scuola del dono». Quanto è importante il concetto di «dono» ai nostri tempi e perché fra tutti i doni ha scelto proprio quello dell’insegnamento della lingua italiana?
«Insegnare la lingua italiana significa aiutare a strutturare il pensiero. Il dono ci consente di uscire dalla dimensione retributiva che ci imprigiona. Io ti do e tu mi dai. No, non così. Noi dovremmo credere in ciò che facciamo a prescindere dal risultato che potremo ottenere. Questa posizione etica è sempre stata storicamente rivoluzionaria, ma oggi lo è ancora di più perché viviamo sotto l’impero del numero. Quanti like hai ricevuto? Tanti? Allora sei bravo. No. Noi puntiamo alla qualità della relazione umana: anche se un giorno restassimo da soli io e mia moglie saremmo ugualmente contenti. Se riuscissimo a far capire anche soltanto questo a un ragazzo, avremmo fatto la rivoluzione».
Chi sono le persone che frequentano i suoi corsi alla Scuola Penny Wirton? Ci può raccontare la storia di una migrante o di un migrante come esempio?
«Immaginate una grande sala con tanti tavolini posti uno accanto all’altro. Ogni studente incarna una storia. Ultimamente abbiamo diverse ragazze madri africane che vengono a studiare coi loro bambini spesso attaccati alle spalle. Dove stanno i padri? Non lo sappiamo. Magari questi piccolini sono figli della violenza. Girano intorno ai banchi: uno si carica sulle spalle il mappamondo di plastica, l’altra gioca in terra con le parole colorate… I minorenni non accompagnati egiziani e bengalesi incrociano il loro sguardo. Alcuni si mettono in un angolo a recitare le preghiere. I ragazzi italiani dei tirocini formativi, sedici, diciassette anni, noi li formiamo come docenti dei loro coetanei immigrati. La nostra è una scuola-non scuola. Nel senso che si creano legami affettivi fra chi vi partecipa».
L’«altro» è un concetto pieno di sfaccettature, spesso nasconde una nostra proiezione e paure ancestrali immotivate e dannose, come far emergere la ricchezza che contiene per arricchire la nostra società?
«L’immigrato non va né criminalizzato, né idealizzato. Va conosciuto. Per farlo noi dobbiamo giocare a carte scoperte, senza rinunciare a ciò che siamo, anzi affermandolo, entrando in azione. Questo vale per ogni rapporto umano. Se noi riuscissimo ad assumere la responsabilità dello sguardo altrui, come dovrebbe fare ogni docente tutte le volte che entra in aula, potremmo contribuire, nel nostro piccolo, al miglioramento dell’umanità. Senza illusioni palingenetiche. Sapendo che ogni generazione è chiamata a ricominciare da capo e non dobbiamo dare mai niente per scontato. Forse il segreto della Penny Wirton è che non abbiamo nessuna connotazione, nessun colore speciale nella nostra maglietta: mettiamo insieme persone molto diverse le une dalle altre che, se fossero chiamate intorno a un tavolo a discutere di un qualsiasi argomento, magari litigherebbero, tuttavia si riconoscono nell’azione a fondo perduto che noi proponiamo».