(Nell’anniversario della morte riproponiamo l’articolo pubblicato in questo blog tre anni fa)
La sera prima che venisse assassinato dalle Brigate Rosse , Vittorio Bachelet si trovava con Achille Ardigò, amico e importante intellettuale cattolico, in casa di comuni amici, “tutte persone molto addentro alle cose della politica” (Ardigò ricordò l’episodio tre anni dopo, nel 1983, a Brentonico, in Trentino, alla scuola estiva di politica della Lega Democratica e della Rosa Bianca).
Uno di loro, saggista molto noto, teorizzava, un po’ sconsolato, un po’ cinico, che “senza interessi da difendere non si può più fare politica”. Che la politica è un dare e avere nei confronti delle casse dello Stato.
Si accese la discussione, qualcuno, tra cui Bachelet, si oppose a questo modo di pensare che, disse Ardigò, stava cambiando la politica italiana.
Contro il machiavellismo
Dopo, Bachelet, che aveva la macchina di servizio e la protezione come Vice presidente del Consiglio superiore della magistratura, accompagnò Ardigò a casa e si fermarono di fronte a piazza Navona a continuare la discussione. E Bachelet, ricordò Ardigò, sviluppò con molta serietà l’affermazione che
non si può accettare l’efficacia se questa efficacia significa l’accettazione del machiavellismo.
La politica non poteva, pur nella complessità, essere ricondotta al gioco degli interessi. Non doveva essere machiavellismo.
In questo episodio ricordato da Ardigò c’è il cuore della testimonianza di Vittorio Bachelet, grande servitore dello Stato in anni cui troppi personaggi si servivano dello Stato per i loro interessi. Basti pensare alla potente e inquietante loggia massonica P2, all’affare Sindona, agli intrecci mafia-politica, agli apparati deviati dello Stato.
Il verbo “servire” applicato a Bachelet non fa sorridere, come spesso accade per l’abuso che ne fanno i profittatori di tutte le risme, ma può rivelarsi in tutto il suo altissimo significato. (L’intervento di Ardigò da cui è tratto l’episodio è stato pubblicato nel libro Aldo Moro e Vittorio Bachelet. Memoria per il futuro, Il Margine, 2008; vedi sotto)
Ancora una volta viene ucciso uno dei migliori
Il giorno dopo, 12 febbraio 1980, Bachelet veniva assassinato da un commando delle Brigate Rosse nell’atrio della Facoltà di Scienze Politiche dell’Università di Roma dove era professore ordinario di diritto pubblico dell’economia.
Se mi capitasse un giorno di incontrare Renato Curcio, fondatore delle Brigate Rosse, che ora scrive libri e fa l’editore, gli chiederei: in un’Italia piena di farabutti che si servivano dello Stato per i loro interessi, voi, che vi spacciate per rivoluzionari razionali, avete ammazzato le persone migliori. Avete assassinato i veri servitori dello Stato, cioè di tutti. E avete contribuito a consegnare l’Italia al peggio che serbava in seno. Ci spiega perché?
Naturalmente non risponderebbe, perché nessun perché sta in piedi.
Questa povera Italia è tale anche per colpa loro. E dei loro deliri mentali.
Azione Cattolica, Fuci e “Cronache sociali”
Vittorio Bachelet era nato a Roma il 20 febbraio 1926, la madre insegnante, il padre ufficiale del Genio, ultimo di nove fratelli. Frequenta l’Azione Cattolica.
Dopo il liceo si iscrive alla Facoltà di giurisprudenza della capitale ed entra nella Fuci, l’associazione degli universitari cattolici che tanta parte ha avuto nella crescita di alcuni dei migliori esponenti della classe dirigente di estrazione cattolica. Diventa condirettore del periodico dell’associazione, “Ricerca”.
Si laurea nel 1947 con una tesi su “I rapporti fra lo Stato e le organizzazioni sindacali”.
L’anno dopo pubblica sul n. 8 di “Cronache sociali”, rivista della sinistra democristiana di Dossetti, Moro, La Pira, Lazzati, Fanfani, un lungo e documentato articolo, a metà tra cronaca politico-economica e riflessione giuridica, su “Impostazione dei rapporti tra azione sindacale politica”. E lo stesso anno, sul n.9, un altro denso articolo su “Governo, sindacati e associazioni padronali nei comitati di produzione”.
C’è in questi scritti del giovane Bachelet, com’è nello stile di “Cronache sociali” – formidabile scuola e palestra di cultura politica -, un attento sguardo a quello che accade in primo luogo a livello internazionale (dalla Francia agli Stati Uniti, dall’India all’Inghilterra…), e poi a livello nazionale, con un accurato utilizzo delle fonti più rilevanti, come leggi, atti governativi, dibattiti parlamentari, congressi dei partiti e dei sindacati, studi, statistiche.
Altri due densi articoli-saggio di Bachelet usciranno sui numeri 8 e 9 del 1949 di “Cronache sociali”, il primo su “La situazione universitaria in Italia”, il secondo su “Un’inchiesta tra gli studenti italiani delle scuole medie: gli aspetti psicologici e pratici della situazione”.
Scuola, università e insegnamento saranno per tutta la vita, fino all’ultimo giorno, un’altra grande passione di Vittorio Bachelet.
Rinnovare il rapporto tra economia, società e istituzioni alla luce della Costituzione
La carriera universitaria di Bachelet lo porta a insegnare diritto amministrativo a Pavia, Trieste e infine alla Sapienza di Roma.
Diventa un grande “amministrativista”, uno dei migliori studiosi del rapporto tra azione pubblica e dinamica economica e sociale, ambito giuridico-politico da ripensare dopo la stagione dello statalismo fascista e alla luce della Costituzione della Repubblica che sarà per Bachelet un costante punto di riferimento.
Ha scritto il giurista Adolfo Beria d’Argentine, come ha ricordato Paolo Giuntella in un suo profilo di Bachelet (in AA.VV., Testimoni del nostro tempo, a cura di Vittorio De Luca, Eri, 1986), che Bachelet andò oltre il tradizionale primato assegnato dai cattolici alla società civile e cercò una sintesi tra società civile, sistema politico-statuale ed economia.
Un altro ambito giuridico nel quale si concentra l’attenzione di Bachelet, nei primi anni ’60, è quello del rinnovamento democratico della disciplina militare, anche questo alla luce della Costituzione. Tema non meno delicato e decisivo nell’opera di rinnovamento delle istituzioni statali nei primi decenni dell’Italia post-fascista.
Attuare il Concilio e liberare l’Azione Cattolica dai legami di partito
Nel 1951 Vittorio Bachelet sposa Maria Teresa (Miesi) de Januario. Nel ’52 nasce Maria Grazia, nel ’55 Giovanni.
Se attuare la Costituzione è l’obiettivo di Bachelet giurista, attuare il Concilio diventa l’obiettivo di Bachelet uomo di fede e di Chiesa. Papa Paolo VI lo nomina nel 1964, l’anno che precede la conclusione del Concilio Vaticano II, presidente nazionale dell’Azione Cattolica, ruolo che rivestirà per 9 anni.
Bachelet è un cristiano con una fede profonda e gioiosa. Per lui il Vangelo deve animare positivamente la vita di ogni giorno, senza farne una bandiera ideologica. I valori cristiani, per lui, vanno difesi con la testimonianza.
Con questo spirito rinnova l’Azione Cattolica dei turbolenti anni ’60 e ’70. Ha ereditato un piccolo esercito di militanti che erano anche al servizio di un partito, la Democrazia Cristiana. Recide quei legami.
La sua Azione Cattolica fa la “scelta religiosa”. Essa doveva formare le coscienze, far crescere i cristiani nella fede, aiutandoli a viverla con coerenza. Questo era il servizio dell’Azione Cattolica alla Chiesa e al Paese.
Scelta contrastata soprattutto dalla neonata Comunione e Liberazione di don Giussani, più attenta ad occupare, in nome di un cristianesimo militante, sempre più spazi di potere nella società, nell’economia e nella politica, non rinunciando, anzi giustificando metodi improntati anche al più disinvolto machiavellismo.
La deriva affaristica di ampi settori di Comunione e Liberazione, esplosa soprattutto con i numerosi scandali in Lombardia che hanno coinvolto e travolto i vertici del movimento, ha dato ragione, se mai ce ne fosse stato bisogno, alle scelte di Bachelet.
Il buio della tragedia illuminato dalla preghiera di Giovanni
In quel tragico 1980 la magistratura pagò un prezzo altissimo. Vennero assassinati dalle Brigate Rosse i magistrati Nicola Giacumbi e Girolamo Minervini, oltre a Vittorio Bachelet, vice presidente del Consiglio superiore della magistratura; per mano di Prima Linea, altro gruppo terroristico di sinistra, viene assassinato il giudice Guido Galli; il gruppo neofascista dei Nar uccide il giudice Mario Amato; la mafia di Cosa Nostra uccide Gaetano Costa, procuratore capo di Palermo.
In quell’anno, il 2 agosto, ricordiamolo, c’è anche la strage neofascista alla stazione di Bologna.
Anno di piombo, davvero, tra anni altri di piombo, prima e dopo.
In quel plumbeo clima che viveva l’Italia arrivò come qualcosa di sconvolgente e luminoso la preghiera di Giovanni Bachelet ai funerali del padre.
Preghiamo per il nostro presidente Sandro Pertini, per Francesco Cossiga, per i nostri governanti, per tutti i giudici, per tutti i poliziotti, i carabinieri, gli agenti di custodia, per quanti oggi, nelle diverse responsabilità della società, nel parlamento, nelle strade, continuano in prima fila la battaglia per la democrazia con coraggio e amore. Vogliamo pregare anche per quelli che hanno colpito il mio papà perché, senza nulla togliere alla giustizia che deve trionfare, sulle nostre bocche ci sia sempre il perdono e mai la vendetta, sempre la vita e mai la richiesta della morte degli altri.
Spirito profondo e sconvolgente del Vangelo, preso alla lettera, e spirito profondo della Costituzione, presa alla lettera, troviamo nella preghiera di Giovanni che colpì profondamente il Paese e non pochi terroristi.
Papà Vittorio aveva detto nel 1973:
Non si vince l’egoismo mostruoso che stronca la vita se non con un supplemento d’amore, se non contrapponendo la capacità di dare la vita per il sostegno e la difesa degli inermi, degli innocenti, di chi vive in una situazione di ingiustizia.
Non si vince questo nostro egoismo se non riscoprendo ogni giorno il valore di ogni uomo perché figlio del Padre che dà la vita.
Dare la vita per gli altri: che rivoluzione! Le Brigate Rosse lo uccisero in una falsa rivoluzione. Ma la rivoluzione di Vittorio Bachelet è più vera e più viva che mai.
11 febbraio 2021