Incontro dell’Anpi per ricordare i 299 malati psichici e disabili deportati nel 1940 verso la morte nei lager in Germania (Pergine Valsugana, Trento, 25 maggio 2024)

«Nel maggio del 1940, 299 uomini e donne di lingua tedesca ricoverati nel manicomio regionale di Pergine furono deportati in Germania; l’operazione era stata concordata fra autorità tedesche e italiane nel quadro delle cosiddette “opzioni” – per cui gli allogeni potevano “scegliere” se rimanere in Italia o trasferirsi nel Reich – e del programma Aktion 4, che prevedeva l’eliminazione per eutanasia dei malati psichici e dei disabili considerati “vite senza valore”, non degne di essere vissute, ai quali, pertanto, l’“opzione” fu sostanzialmente imposta, se non preclusa.

La maggior parte trovò la morte per malattia, carenza alimentare, stenti, ma anche nel contesto delle operazioni naziste per” la purificazione della razza”»

A cura del Laboratorio di storia di Rovereto

 

Anpi del Trentino

Pergine, 18° Incontro della Memoria

sabato 25 maggio 2024, ore 11

La deportazione verso morte nel lager di 299 malati psichici

 

Nel maggio del 1940, 299 uomini e donne di lingua tedesca ricoverati nel manicomio regionale di Pergine furono deportati in Germania; l’operazione era stata concordata fra autorità tedesche e italiane nel quadro delle cosiddette “opzioni” – per cui gli allogeni potevano “scegliere” se rimanere in Italia o trasferirsi nel Reich – e del programma Aktion 4, che prevedeva l’eliminazione per eutanasia dei malati psichici e dei disabili considerati “vite senza valore”, non degne di essere vissute, ai quali, pertanto, l’“opzione” fu sostanzialmente imposta, se non preclusa.

Con un convoglio speciale in partenza dalla stazione ferroviaria di Pergine, il 26 maggio 1940, i malati di origine e lingua tedesca residenti o domiciliati a Pergine furono accompagnati da personale medico, sanitario, religioso e amministrativo all’ospedale psichiatrico di Zwiefalten, in Germania, e di lì in parte smistati fra gli ospedali di Schussenried e Weissenau, per poi inviarli al centro di annientamento di Grafeneck.

La maggior parte trovò la morte per malattia, carenza alimentare, stenti, ma anche nel contesto delle operazioni naziste per” la purificazione della razza”, denominate Aktion T4, con la soppressione delle persone con menomazioni fisiche o psichiche.

Nel 2011, venne scoperto alla stazione ferroviaria un pannello che con fotografie dell’epoca ricorda appunto l’evento del 1940. Vogliamo ricordare presso la stazione ferroviaria di Pergine la loro tragica partenza verso la morte con una semplice cerimonia, consapevoli che questo orrore è stato, illuminati dalla memoria ad impegnarci contro ogni altro orrore si manifesti anche nel nostro tempo.

A nessuno compresi i loro parenti venne permessa la possibilità di scegliere fra il restare in Italia e l’andare in Germania. Persone di estrazione sociale diverse: agricoltori, contadine, operai, artigiani, frati cappuccini, uno studente di un seminario, un ingegnere, un capostazione, un insegnante. La maggioranza è cattolica, due donne sono di religione ebraica.

Quasi tutti erano da tempo ricoverati a Pergine, 30 provenivano dalla colonia agricola di Vàdena, 23 dall’Istituto di Nomi, alcuni da Udine e Gemòna. Affetti da diverse patologie: schizofrenici, paralitici gravi, epilettici, alcolisti, persone in stato di confusione mentale, eccitazione, disturbi psicomotori.

Due delegazioni, una italiana e una tedesca, hanno la responsabilità di organizzare il trasferimento. Tre tedeschi e un gruppo di 37 italiani composto da infermieri, suore, funzionari, il direttore del manicomio e il medico provinciale di Bolzano accompagnano in treno gli ammalati.

Al loro arrivo a Zwiefalten, vengono accolti dal direttore dell’ospedale, molti ammalati si rifiutano di scendere dal treno e si dovrà usare la forza. Agli accompagnatori italiani viene invece impedito l’accesso all’ospedale, nessun contatto con i servizi interni, nessuna informazione sulle terapie.

Il loro destino è segnato per sempre e non potranno mai più tornare in Italia.

Adolf Hitler : “Fintanto che lo stato sarà condannato a prelevare dai cittadini somme enormi che aumentano di anno in anno per il mantenimento di questi miserevoli malati ereditari, sarà altresì costretto a trovare misure adeguate a prevenire che in futuro una tale immeritata sofferenza venga trasmessa per via ereditaria e a impedire che a milioni di individui sani venga tolto il necessario sostentamento per tenere in vita milioni di malati”.

Il giurista Karl Binding, si espresse per la loro eliminazione: “Costoro non hanno né la volontà di vivere né quella di morire. Per questo, né da un punto di vista giuridico, né sociale o morale o religioso, c’è alcun motivo per non acconsentire all’uccisione di questi esseri. In tempi di più alta moralità – nei nostri, invece, ogni forma di eroismo è andata perduta – si sarebbero liberati d’ufficio questi poveri esseri dalla loro stessa vita”.

Testimonianza di una infermiera: «Quando nell’agosto 1940 tornai dalle vacanze, undici dei miei pazienti non c’erano più, ma nessuno sapeva dove fossero stati portati. Credevamo che li avessero trasferiti in un manicomio in cui sarebbero stati curati bene. Ma quando l’8 novembre 1940 sparì un secondo gruppo di donne e ci vedemmo riconsegnata la loro biancheria in condizioni pietose, come fosse stata strappata, diventammo sospettose. Il terzo trasporto di donne ebbe luogo il 9 dicembre 1940.

Fu particolarmente difficile per noi infermiere consegnare queste pazienti, di cui ci eravamo occupate per anni, come fossero bestie destinate a una morte che reputavamo quasi certa. Gli addetti ai trasporti giungevano da Berlino ed erano donne e uomini rudi e spaventosi: afferravano bruscamente i pazienti e li immobilizzavano nelle vetture, a volte addirittura con catene.

Le ambulanze non si presentavano all’entrata principale, ma arrivavano prima dell’alba nel cortile interno – dove venivano radunati i degenti selezionati – e sempre prima dell’alba lasciavano l’ospedale. I pazienti cominciarono a capire cosa stava loro per succedere e piangevano, a volte urlavano anche. Una donna che era stata trasferita dal reparto alla cosiddetta casa di campagna, da dove partivano i trasporti, disse: «Socosa mi aspetta». Prima che la portassero via, chiese un dolcetto come regalo di addio. Tempo dopo la sua deportazione, alla sorella fu comunicato che la paziente era morta di dissenteria».

Le parole di Maria Vollweiler una delle poche sopravvissute danno il senso di quanto sia stata crudele la permanenza in questo ospedale.

«Ero arrivata a Zwiefalten da alcune settimane quando, al mattino molto presto, io e altre pazienti fummo preparate per un trasporto e un’infermiera ci mise un numero sulla schiena. Da Zwiefalten fummo portate a Grafeneck dentro autobus verniciati di grigio, ero quasi certa che mi trovavo in un carico di morti. A Grafeneck fummo subito portate in una lunga baracca. Dalla finestra di questa baracca ho visto che l’istituto era circondato da filo spinato. In quella stanza dovemmo aspettare forse due o tre ore, sorvegliate da infermieri.

Quando fu chiamato il mio nome, fui portata in un’altra baracca attraverso un lungo corridoio. Lì stavano seduti dietro alcuni tavoli circa sei uomini, probabilmente dottori. Uno di questi mi interrogò per circa un’ora. Poi arrivò un sorvegliante, dovetti scoprire la schiena e il sorvegliante cancellò il numero. Fui portata in una piccola stanza in cui c’erano quattro letti. Anche qui dovetti aspettare a lungo. Fui portata a Zwiefalten in un’automobile.

Di tutte quelle che conoscevo, venute con me a Grafeneck, non ho più rivisto nessuno, e devo supporre che io sia l’unica sopravvissuta di tutto il carico”.

 

da libro

Il diradarsi dell’oscurità. Il Trentino, i trentini nella seconda guerra mondiale,

a cura del Laboratorio di storia di Rovereto

Volume 1. 1939-1941, Egon, Rovereto (TN) 2009.