Scuole di cittadinanza: dove lo Ius Scholae esiste già (intervista di Sara De Carli a Eraldo Affinati, dalla rivista “Vita”)

Eraldo Affinati, scrittore e insegnante, fondatore della Scuola Penny Wirton

«La cittadinanza non deve essere concepita come un premio. Significa riconoscere i diritti di chi vive e lavora in Italia, paga le tasse, è già parte della comunità nazionale. Il successo o l’insuccesso scolastico non devono entrarci. Dovrebbe valere solo la frequenza scolastica a testimonianza di una presenza attiva nel Paese, nel rispetto reciproco delle regole di convivenza, il che comporta diritti e doveri, secondo il dettato costituzionale.» (Eraldo Affinati)

 

Eraldo Affinati

Scuole di cittadinanza: dove lo Ius Scholae esiste già

Intervista di Sara De Carli a Eraldo Affinati

dalla rivista “Vita”, www.vita.it

 

Un viaggio di VITA nelle scuole d’Italia, dove tutti i giorni bambini e adolescenti imparano a vivere insieme, da uguali, nella diversità. La scuola lascia il segno, sempre. Per questo l’educazione alla cittadinanza è già una realtà, che lo Ius Scholae non farebbe altro che riconoscere. Prima tappa, una riflessione con lo scrittore Eraldo Affinati

 

Antonio Tajani, chiudendo la festa di Forza Italia Giovani a Bellaria, ha rilanciato ancora: «Guai se abbiamo paura di concedere diritti meritati: saremmo un centrodestra oscurantista che non si rende conto dei cambiamenti della società». La Lega lo ha prontamente stoppato.

Se davvero vogliamo che il dibattito sullo Ius Scholae forse non sia solo un ballon d’essai estivo, non basta osservare le schermaglie e i segnali che la politica lancia. Serve una presa di posizione.

La serie “Scuole di cittadinanza” racconterà la vita delle scuole d’Italia, che sono già scuole di cittadinanza.

«Chi frequentala scuola non impara soltanto regole e formule, ma trova la radice della polis. Per questo legare la cittadinanza al percorso scolastico mi sembra giusto», dice Eraldo Affinati, scrittore e insegnante. Un uomo che nel 2008 insieme alla moglie Anna Luce Lenzi ha fondato la Penny Wirton, una scuola gratuita di italiano per stranieri, che oggi conta 65 sedi in Italia. Che nel settembre 2017 è stato il primo firmatario dell’appello di docenti ed educatori per lo ius soli e lo ius culturae lanciato da Franco Lorenzoni.

Ma che nei mesi scorsi, quando il ministro Valditara ha annunciato l’invio di più insegnanti specializzati nelle classi dove gli alunni stranieri che non parlano l’italiano sono più del 20%, ha avuto l’onestà intellettuale di dire che quella mossa era giusta. Oggi – spiega – il primo passo da fare è «sottrarre questo dibattito alla strumentalizzazione dei partiti. Stiamo parlando di un tema di civiltà sociale che non dovrebbe avere etichette ideologiche».

Che ne pensa dello Ius Scholae?

Credo sia fondamentale approvarlo al più presto per sanare un’ingiustizia incarnata da quasi un milione di ragazzi, già italiani nei fatti. Per realizzarlo subito sarebbe indispensabile sottrarre questo dibattito alla strumentalizzazione dei partiti. Stiamo parlando di un tema di civiltà sociale che non dovrebbe avere etichette ideologiche.

Avete intitolato Italiani anche noi il manuale che avete scritto per avvicinare i neo-arrivati alla comprensione dell’italiano, che viene utilizzato nelle scuole Penny Wirton. Perché questa scelta? Una speranza, un dato di fatto, cosa?

Al tempo in cui con mia moglie lo scrivemmo, volevamo sottolineare come la conoscenza linguistica dell’italiano rendesse queste persone depositarie di diritti che andavano riconosciuti. Purtroppo non è ancora avvenuto.

Eraldo Affinati alla Penny Wirton

Lo Ius Scholae è “solo” un buon compromesso politico, di sano realismo, fra le speranze di alcuni e i timori di altri, o c’è anche un “di più” di valore nel legare la cittadinanza alla scuola?

La scuola non è solo il luogo dell’apprendimento culturale in senso stretto, rappresenta anche il centro della socialità, la costruzione del nostro futuro, la realtà e il sogno di ciò che siamo e vorremmo essere. Chi la frequenta non impara soltanto gerghi e formule, ma trova la radice della polis, quindi legare la cittadinanza al percorso scolastico mi sembra giusto.

Vede invece dei rischi?

Francamente no. Si tratta solo di legittimare una condizione già presente nel Paese che è andato molto più avanti di certi suoi rappresentanti.

Forse un rischio dell’agganciare la cittadinanza al percorso scolastico è quello che si finisca per far coincidere il successo del percorso scolastico con i voti o con la promozione e quindi il rischio che la cittadinanza alla fine sia “un premio” per gli studenti meritevoli e qualcosa che si possa negare ai ripetenti…

La cittadinanza non deve essere concepita come un premio. Significa riconoscere i diritti di chi vive e lavora in Italia, paga le tasse, è già parte della comunità nazionale. Il successo o l’insuccesso scolastico non devono entrarci. Dovrebbe valere solo la frequenza scolastica a testimonianza di una presenza attiva nel Paese, nel rispetto reciproco delle regole di convivenza, il che comporta diritti e doveri, secondo il dettato costituzionale.

D’altra parte però basta come criterio mettere solo l’essere stati iscritti e l’aver frequentato per un tot di anni la scuola italiana? Ci sarà pure una sorta di “dispersione implicita” anche parlando del percorso relativo alla crescita della propria identità di cittadino. Insomma, che paletti realisticamente le sembra corretto mettere? Quali caveat?

La dispersione implicita riguarda anche gli studenti italiani: stare a scuola senza imparare niente, almeno secondo i criteri di valutazione che oggi vengono adottati, non è prerogativa degli immigrati, i quali possono essere, come noi tutti, capaci e incapaci, meritevoli e svogliati, bravi e negligenti. Concedere la cittadinanza non significa selezionare i migliori. Questo deve essere un punto fermo.

Sostenere lo Ius Scholae significa ritenere che la scuola sia effettivamente il luogo principale in cui si impara a vivere insieme, da uguali, nella diversità. È questo in fondo il senso di quella continua “educazione alla cittadinanza” che è lo stare in classe insieme e che tutti gli studenti e le studentesse fanno ogni giorno, quale che sia l’origine dei loro genitori: un percorso trasversale, non l’oggetto di una educazione specifica. Ma questa cosa la scuola è o non è in grado di farla? La sta già facendo o no? Perché se la risposta è sì, allora è coerente riconoscere il valore di questo percorso; se invece riteniamo che la scuola questo ruolo non sia in grado di assolverlo, ciò vale sia con gli alunni con cittadinanza non italiana sia con quelli che la cittadinanza italiana ce l’hanno. E allora abbiamo un problema anche per i nostri figli. O no?

Se la scuola educhi alla cittadinanza oppure no è un’altra questione che riguarda tutti, non solo gli extracomunitari. Io comunque penso che il sistema dell’istruzione italiana, con i suoi innegabili difetti, ritardi e problemi, sia ancora oggi uno dei migliori al mondo, anche in questo senso. Basti pensare alla legislazione particolarmente innovativa di cui disponiamo sul sostegno ai ragazzi più fragili: altri Paesi persino europei sono ancora indietro rispetto a noi. Le nostre classi eterogenee e inclusive, almeno finora, sono all’avanguardia. Molti dei nostri giovani quando emigrano vengono apprezzati, trovano lavoro: se non fossero preparati bene, ciò non accadrebbe.

Ma concretamente, che cosa significa oggi che le scuole italiane oggi sono “scuole di cittadinanza”?

Vuol dire che i bambini, uscendo dalle famiglie, trovano a scuola il mondo così com’e, non come vorremmo che fosse. Che gli adolescenti si misurano con la realtà, imparano le regole di convivenza, provano le maschere di ciò che saranno o potranno essere. Questo comporta una controversia, una lotta. Se non fosse così, non sarebbe vera scuola.

Lei una volta, commentando la vicenda di Rami, il tredicenne di origine egiziane nato in Italia che ha sventato la tragedia dello scuola bus a San donato Milanese, ha detto che «quello che accade in aula ha effetti indelebili e incredibili sui giovani, è questa la potenza dell’insegnamento». Qual è il segno indelebile che la scuola lascia su ragazzini che hanno un pezzo delle loro radici in un’altra cultura? Quante volte l’ha visto accadere?

I ragazzi di prima generazione, appena arrivati in Italia, hanno una grande forza vitale: nel confronto col “nuovo mondo” attraversano un processo di trasformazione interiore che si esprime nell’elaborazione linguistica dell’esperienza, quindi la scuola in particolare per loro rappresenta lo strumento primario per diventare cittadini. Ricordo quando Ibrahim venne a casa nostra per ringraziarci dell’insegnamento che gli avevamo dato. L’avevamo conosciuto come analfabeta nella lingua madre. Pian piano aveva imparato a leggere gli slogan della pubblicità sui manifesti, i nomi delle strade, perfino quelli della scuola che frequentava: la Città dei Ragazzi. I primi giorni per lui quella dicitura era soltanto un adesivo multicolore: nel momento in cui riuscì a decifrarla, era felice. Quando ce lo disse, saltando contento sul divano di casa nostra, per me e Luce fu una grande emozione: provammo l’impressione di aver ridato la vista a un cieco.

Ovviamente questo non accade sempre, così come è evidente che non tutti i ragazzi con cittadinanza non italiana che hanno fatto la scuola in Italia diventeranno dei “cittadini modello”. Questa consapevolezza è un’obiezione all’ipotesi dello Ius Scholae?

Non esistono i cittadini modello. L’immigrato non va né criminalizzato né idealizzato. Dobbiamo conoscerlo. Vale per tutti. Quanti “ragazzi modello” italiani si sono rivelati assassini? I più recenti fatti di cronaca non fanno che confermarcelo.

Non esistono i cittadini modello. L’immigrato non va né criminalizzato né idealizzato. Dobbiamo conoscerlo. Vale per tutti.

Lezioni alla Penny Wirton

C’è una frase di questo dibattito che le dà particolamente fastidio? Per me per esempio è quando si dice che «questi ragazzi sono uguali in tutto ai loro coetanei che la cittadinanza italiana ce l’hanno, tranne che nei diritti». Vorrebbe dire cancellare le differenze e (paradossalmente) negare che i percorsi di integrazione necessitano di cura, risorse, investimento.

Sì, anche a me questo dà fastidio. Come pure l’idea che la cittadinanza debba essere conquistata superando un percorso ad ostacoli e non invece semplicemente riconosciuta. C’è un grande lavoro umano da compiere nei confronti delle persone che si oppongono al diritto alla cittadinanza per gli stranieri che frequentano un corso di studi. Non mi riferisco ai politici, i quali cinicamente vogliono lucrare consenso secondo un miserabile calcolo elettorale. Ho più a cuore chi, magari in buona fede, crede davvero che tale riforma aprirebbe le porte a chissà quali sconvolgimenti. Mi piacerebbe portarli alla Penny Wirton, farli sedere ai tavoli davanti a Mohamed e Francisca. Sono sicuro che molti cambierebbero idea.

Il fatto di non avere la cittadinanza, lo sappiamo, ha conseguenze pratiche negative sulla vita degli adolescenti (dover rinnovare il permesso di soggiorno, non poter andare in gita all’estero con la stessa facilità dei compagni, talvolta problemi con i servizi locali collegati alla scuola come la mensa o i trasporti, altre con l’iscrizione alle società sportive o ai tornei…). Nella sua esperienza, la mancanza di cittadinanza per i ragazzi ha anche conseguenze sulla maturazione del senso di appartenenza alla comunità in cui vivono, sulla costruzione dell’identità di adolescenti che comunque vivono il tema di avere più culture e più radici? Ce li racconta un po’ questi adolescenti “italiani anch’io”?

Per fortuna loro si fanno meno problemi di quanto noi possiamo supporre. Hanno una straordinaria capacità di recupero e inserimento sociale. Molti problemi che lamentano sono incredibilmente vicini a quelli dei nostri figli. Soprattutto fanno presto a ribaltare i nostri schemi, lanciati come sono verso il futuro, solenne e imperscrutabile. A proposito di identità multiple inaspettate ricordo Okeke, 17 anni, africano purosangue: abitava a Castel Volturno, i padri comboniani mi avevano invitato a fare un campo scuola con quelli come lui. Giocammo sotto un tendone, sudando come matti. Poi gli chiesi: cosa vuoi fare nella vita? E lui, guardandomi fisso negli occhi, mi rispose: voglio andare in Giappone. Mi misi a ridere perché io magari pensavo che avrebbe voluto proseguire gli studi a Napoli o Roma o Milano. E così cominciò a parlare, in bell’italiano con stupenda inflessione partenopea, dei manga e di qualche video su You Tube. Non ci capivo niente, però pensavo: gli uccellini quando volano da una frontiera all’altra non devono timbrare il passaporto.

Alcuni dicono che nella fase dell’adolescenza i ragazzi e le ragazze con cittadinanza non italiana tendano a ritornare ad aggregarsi con i coetanei in base al paese di origine: arabo con arabo, cinese con cinese… Il riconoscimento della cittadinanza, il dare loro elementi certi su cui costruire il loro senso di appartenenza e la loro identità italiana limiterebbe il rischio che possano costruire la loro identità “arroccandosi” nel perimetro della comunità d’origine e delle sue tradizioni. Che ne pensa?

Se noi continuiamo a escludere tutti questi ragazzi, il rischio della ghettizzazione è reale. In alcune metropoli italiane lo abbiamo già visto. Io l’ho spesso notato all’estero: a Parigi, Stoccolma, Bruxelles. Nel mio ultimo libro, Le città del mondo, racconto anche questo. L’adolescente non riconosciuto potrebbe trovare nella banda una sorta di riscatto identitario. È sempre successo. Anche per evitare tale rischio dovremmo facilitare l’ottenimento della cittadinanza italiana. Non dovremmo arroccarci. Bisogna fare il contrario: senza rinunciare al nostro carattere, ai nostri valori, ma mettendoli in circolo affinché possano arricchirsi e diventare fruttuosi.

Se noi continuiamo a escludere tutti questi ragazzi, il rischio della ghettizzazione è reale. In alcune metropoli italiane lo abbiamo già visto

Identità, cittadinanza, patria. Le va di ridefinire queste parole, alla luce della sua esperienza e degli incontri con tanti ragazzi, in risonanza con il bel volume Atlante dal mondo nuovo, appena uscito per Il Margine, scritto dai ragazzi stessi delle scuole Penny Wirton?

Con Atlante dal mondo nuovo. Voci e racconti dalle scuole Penny Wirton abbiamo voluto dare voce agli stessi migranti di prima generazione, assegnando ad ogni scuola Penny Wirton una parola sulla quale costruire un racconto, scrivere una poesia, consegnare una testimonianza. Ne è scaturito un caledoscopio di storie in cui ciò che conta è la voglia di partecipare, oltre tutte le visioni stereotipate del povero immigrato venuto in Italia senza arte né parte. Al contrario, i nostri autori hanno mostrato versatilità e talenti che, se coltivati, potrebbero dare ottimi frutti.

Qual è per lei il volto, la storia, il frammento, la parola simbolo di tutto questo ragionamento?

Umanità. L’ho visto nel rapporto fra l’immigrato e chi se ne prende cura. Nader, tunisino, che abita a Parma. Gli avevo assegnato la parola “treno”: il racconto torrenziale delle sue vicissitudini non sarebbe stato possibile senza la volontaria, pronta a rassicurarlo per tirargli fuori ciò che si teneva dentro.

VITA ha provato a sintetizzare le 5 buone ragioni per approvare subito lo Ius Scholae. La sua buona ragione, in sintesi, qual è?

Secondo me riconoscere la cittadinanza a chi già vive e lavora qui, parla la nostra lingua, frequenta la scuola (compresi i ripetenti!), contribuisce al bene comune, serve anche a noi perché ci fa capire che, come mi disse una volta il mio grande amico Mario Rigoni Stern quando parlavamo di questo, «se vai a rivangare nei secoli, scopri che al mondo siamo tutti paesani».

Le foto pubblicate nell’articolo sono di Eraldo Affinati