Lo scandalo del Vangelo nell’opera letteraria di Dostoevskij e Bernanos

 

Perché Fedor Dostoevskij (1821-1881) e Georges Bernanos (1888-1948) assieme? Quando il grande russo moriva, lo scrittore francese nasceva. Che cosa li lega al di là della simpatia del relatore per loro? Certamente un amore viscerale per la figura di Cristo.

 

 

Bernanos fa dire al protagonista del suo capolavoro, il Diario di un curato di campagna:

Io non sono l’ambasciatore del Dio dei filosofi, sono il servo di Gesù Cristo

mentre il santo monaco Zosima del capolavoro di Dostoevskij, I fratelli Karamazov, dice:

In verità, sulla terra noi vaghiamo un po’ a caso e se non avessimo davanti agli occhi la preziosa immagine di Cristo, ci smarriremmo e ci perderemmo del tutto, come il genere umano prima del diluvio.

 

Un amore tanto viscerale perché necessario, necessario per vivere, per sopravvivere, perché in Gesù Cristo si è manifestata, con tutta la sua carica paradossale, sconcertante, illogica quella verità che sola spiega il senso dei nostri giorni.

Tanto da far dire a Dostoevskij che se un giorno lui scoprisse che la verità non è Cristo, lui starebbe dalla parte di Cristo.

Lo scrive in una memorabile lettera del febbraio 1854 a Natalja Dmitrievna Fonvizina che aveva seguito in Siberia il marito, condannato all’ergastolo e all’esilio per motivi politici:

…non c’è nulla di più bello, di più profondo, di più simpatico, di più ragionevole, di più virile e perfetto di Cristo e non solo c’è, ma con geloso amore mi dico che non può non esserci. E non basta; se mi si dimostrasse che Cristo è fuori della verità ed effettivamente risultasse che la verità è fuori di Cristo, io preferirei restare con Cristo anziché con la verità.

(Lettere, a cura di Ettore Lo Gatto, 1950, ristampa Aragno, 2017, vol. I, p. 154)

 

 

Radicalismo evangelico

 

Parlo di questi autori da semplice lettore, non da studioso, perché se pensiamo alle centinaia di articoli, saggi e libri che ogni anno, ad esempio, si scrivono su Dostoevskij, beh, verrebbe voglia di stare zitti.

Ma sarebbe però come rinchiudere nella prigione degli specialisti questi scrittori che invece sono stati, soprattutto il russo, molto popolari.

Spero tuttavia di non tradire il significato profondo della loro opera se mi limiterò a raccogliere e avvicinare alcuni loro pensieri per scoprire quali punti in comune, derivanti dal loro amore per la figura di Cristo, avevano.

 

Stando attenti a non incorrere in quell’errore di cui parlava in un suo scritto Bernanos ricorrendo ad una delle sue efficaci immagini:

Tutte le idee che si lasciano andare da sole in giro, con la treccia sulle spalle e un panierino in mano come Cappuccetto Rosso, vengono violate al primo angolo di strada da un qualunque slogan in uniforme.

Ecco, non vorrei violare con degli slogan l’opera di questi scrittori, cogliendo qualche loro idea qui e là.

Mi pare di poter dire che il loro radicalismo evangelico, derivante dall’amore – decisivo – per la figura di Cristo, ha cinque capisaldi: libertà, verità, povertà, infanzia, santità.

 

 

Lo scandalo della libertà

 

Alla base di tutto c’è lo scandalo della libertà. Scrive Bernanos:

Lo scandalo dell’universo non è la sofferenza, ma la libertà. Dio ha fatto libera la sua creazione: questo è lo scandalo degli scandali, perché tutti gli scandali procedono da esso.

Il cristiano, per Bernanos, è il custode della libertà.

Una responsabilità concreta, che lo stesso scrittore francese assumerà coerentemente per tutto il corso della sua vita. Egli è stato, infatti, un uomo libero, capace di chiamare in ogni momento le cose col loro nome, capace di scegliere, contro le consuetudini, le opportunità, le convenienze.

Libero davanti alla Chiesa, che pure amava, ma che seppe giudicare con estrema durezza quando essa giustificò gli orrori franchisti nella guerra di Spagna.

Libero davanti alla politica: lui, monarchico, non ebbe mai nessun timore a criticare la destra.

Libero davanti alla civiltà delle macchine, dell’economia, così come libero di fronte ai totalitarismi, comunista e fascista. Attaccherà duramente il Lenin che diceva “A che serve la libertà?”; le ideologie per le quali è lo Stato che si sobbarca della fatica di pensare per i cittadini; e il mondo moderno che “non ammette altra regola che l’efficienza”, un mondo che odia l’uomo libero tanto che

ad ogni guerra per la libertà ci vien tolto il 25% delle libertà che ci restano.

E come dimenticare le sue ironie sulla “democrazia atomica” (aveva visto in tempo Hiroshima)? Diceva:

Che bella democrazia! Perché non dare a questo punto a ciascun elettore una bomba atomica invece di una scheda? Forse sarebbe più democratico.

Il mostro è l’organizzazione totalitaria internazionale, basata sulla industria, i capitali, gli affaristi. Un mostro altrettanto terribile del comunismo.

Che affinità con Dostoevskij! Il russo aveva visto tutte queste cose ottant’anni prima, nel 1862, all’esposizione universale di Londra:

 

E la City, coi suoi milioni e col commercio mondiale, il palazzo di cristallo, l’esposizione universale… Sì, l’esposizione è qualcosa di sbalorditivo. Vi percepite una forza tremenda che lì ha riunito in un unico gregge tutto quell’incalcolabile numero di persone giunte da ogni parte del mondo.

Voi avete coscienza di un pensiero immane: percepite che lì qualcosa è già stato raggiunto, che lì è la vittoria, che lì è il trionfo. Cominciate persino come a temere qualcosa. Per quanto siate indipendenti, pure per qualche motivo sarete assaliti dal timore. “Non è forse questo, realmente, l’ideale raggiunto?” – così vi vien da pensare – “Non è questa la fine? E non è già questo, in effetti, l’unico gregge?” (…)

Voi percepite che occorre molta resistenza spirituale e un’eterna capacità di negazione per non cedere, per non soggiacere all’effetto, per non inchinarsi davanti al fatto e per non deificare Baal, e cioè per non accettare quello che esiste come il proprio ideale…

(Note invernali su impressioni estive, Feltrinelli, 1993, pp. 52-53).

 

Una straordinaria capacità visionaria aveva fatto cogliere a Dostoevskij l’essenza anticristiana dell’onnipotenza universale delle macchine, del denaro, dell’esaltazione del progresso; anticristiana perché totalitaria, capace di imprigionare la mente e i cuori, di asservire, di privare gli uomini, di fatto, della loro libertà.

Uomini naturalmente protesi ad inginocchiarsi di fronte a qualcuno, a qualcosa, ad una qualunque antica o nuova divinità.

Solo la fede nel Cristo Figlio di Dio chiama radicalmente alla libertà, una libertà che costa, che è dura, più dura dell’asservimento, della narcosi da benessere e felicità.

Lo ricorda, nella famosa Leggenda, anche il grande Inquisitore che nell’invenzione di Dostoevskij ha fatto arrestare il Cristo tornato sulla terra tra l’umanità degradata della Spagna del ‘600, cosparsa di roghi di eretici:

Perché sei venuto a disturbarci?

esclama l‘Inquisitore, il novantenne, saggio cardinale di Siviglia, davanti al Cristo in catene e silenzioso. E continua a rimproverarlo: Stai rovinando tutto. Noi stiamo correggendo l’opera tua, perché hai chiesto troppo agli uomini dando loro la libertà, ma essa è intollerabile per la natura umana. E’ un peso troppo grande. Tu hai creato l’uomo ribelle, ma i ribelli non possono essere felici. E gli uomini anelano alla felicità. E allora abbiamo corretto, per queste povere creature che tu volevi così grandi, perché libere (ma solo in pochi avrebbero potuto essere liberi, cioè grandi), abbiamo corretto la tua opera col mistero, il miracolo e l’autorità. Noi saremo infelici e condannati per la loro felicità. Così l’Inquisitore.

Allora il Cristo, che è sempre rimasto silenzioso, lo guarda calmo e lo bacia. L’Inquisitore sconvolto lo lascia andare via:

Vattene e non venire mai più, mai più!

Non tornare mai più con la tua libertà. Davvero lo scandalo dell’universo è la libertà. La fede nel Cristo è fondata sulla libertà, la sua parola è una parola di libertà. Mentre attorno a noi si costruiscono prigioni: mentali, economiche, atomiche, politiche, anche ecclesiali.

 

Verità e povertà

 

Libertà e verità camminano insieme. Se la verità fa liberi, la libertà permette di cogliere la verità, di vederla senza paraocchi.

Gli eroi di ambedue gli scrittori sono costantemente in lotta con la menzogna, dentro e fuori di loro. Il mondo non ama la verità. Essa, quando si manifesta, sconvolge.

Nulla è più anticristiano dell’ordine fondato sulla menzogna, della serenità che nasconde la verità.

La povertà, poi. E’ interessante vedere come tutti e due nella loro vita, Dostoevskij e Bernanos, abbiano dovuto lottare con il problema del denaro.

Il russo ha scritto tutti i suoi grandi romanzi sotto l’assillo dei debiti contratti per lo più dal fratello. Il francese, che aveva sei figli, si trascinava per il mondo la famiglia con non poca fatica economica (ma trovò anche il tempo di rinunciare a onori e ministeri nel governo francese alla fine della guerra).

Bernanos rimprovera la Chiesa di non aver onorato il povero a sufficienza. La miseria rappresenta l’abiezione, la sconfitta, l’impossibilità dell’uomo di essere tale. La povertà è un’altra cosa, è un grande dono che Cristo ha dato agli uomini affidandolo in custodia, dice Bernanos, ai cristiani e alla Chiesa: voi dovreste tenerlo sempre ai primi posti delle vostre chiese, il povero; voi dovreste onorare il povero, mentre voi avete onorato il ricco.

 Nostro Signore, sposando la povertà, ha talmente elevato il povero in dignità che non si potrà più farlo scendere dal suo piedistallo. Gli ha dato un antenato, e quale antenato! Un nome, e quale nome!

La povertà è la libertà dalle cose.

 

Lo spirito dell’infanzia

 

Come la povertà rende possibile la comprensione delle cose di Dio, altrettanto lo spirito dell’infanzia.

Il mondo sarà giudicato dai fanciulli

scrive Bernanos nei Grandi cimiteri sotto la luna. Ma tanto in Bernanos che in Dostoevskij non c’è un’immagine poetica dell’infanzia. I bambini della parrocchia del curato di campagna sono maliziosi e nell’Idiota di Dostoevskij sono perfino crudeli.

La povera Mouchette, altro grande personaggio bernanosiano, è derisa e disprezzata dai ragazzini così come Marie dell’Idiota.

 

Eppure tanto Alioscia dei Fratelli Karamazov quanto Myskin dell’Idiota stanno bene in mezzo ai bambini. L’infanzia è il simbolo della debolezza, della dipendenza, della fiducia serena in qualcun altro, della libertà del giudizio.

Il principe Myskin, protagonista dell’Idiota, è appunto un fanciullo adulto, che scompiglia il mondo con i suoi discorsi franchi e innocenti, col suo atteggiamento buono, fiducioso verso gli altri.

La sua presenza è davvero l’irruzione di qualcosa di sovrumano (proprio perché “infantile”) nella vicenda quotidiana rinsecchita dalle convenzioni che ammazzano lo spirito. “E’ folle”, è idiota, dice il mondo, così come lo dissero del Cristo.

Eppure, proprio la Chiesa – dice Bernanos – è stata incaricata da Cristo di mantenere nel mondo lo spirito dell’infanzia, dell’ingenuità, della freschezza.

Che compito! Non lo si ritrova spesso citato nei documenti episcopali, ma ogni tanto arriva qualche santo (“idiota”) a ricordarlo ai porporati, come la piccola Teresa di Lisieux.

 

Santi strani

 

La santità, appunto. La Chiesa ha bisogno di santi più che di riformatori, diceva Bernanos. Il che non giustifica il non fare le riforme, come spesso accade. Magari qualche pacioso monsignore di curia è pronto a spiattellarti Bernanos per dirti: fa’ il santo, non il riformatore. Perché tutto resti come prima, a partire dalla coscienza tranquilla.

Invece la santità è un dovere di tutti. Santi strani popolano i romanzi di Bernanos, esseri fragili, spesso perdenti, senza alcun successo mondano. A loro modo dei piccoli “idioti”.

E in Dostoevskij?

Ecco l’“Idiota” per antonomasia. È contraddittorio, perché aspira all’ideale, ma non è l’ideale; dona senza contare; gli dicono “tutti ti ingannano, tu lo sai e ti fidi ugualmente”; è coraggioso, e il mondo scettico ride di lui; egli può apparire nella sua vera natura, mostrare il lato che di solito rimane nascosto; ha un’infinita capacità di compassione; afferma la verità senza badare alle conseguenze.

E l’Alioscia dei Karamazov? Desta simpatia, ma anche diffidenza e scherno tra i compagni; ha un’intelligenza media, ma un cuore caldo; è lieto e taciturno; è intrepido anche lui; il suo essere “giudica”, “tu sei la mia coscienza”, gli vien detto; assomiglia agli “innocenti”, agli “idioti”; è generoso, senza senso del denaro, dispensa i suoi beni; è sincero, non si preoccupa del domani. E soprattutto la verità prorompe da lui.

 

Dalla parte di Dio

 

Ma, avviandomi alla conclusione, la radicalità evangelica in Dostoevskij e Bernanos non è soltanto un qualcosa dalla parte dell’uomo, ma anche dalla parte di Dio.

È la radicalità estrema, questa, che si manifesta nel momento della morte. Davvero quanto c’è di più radicale, di più paradossale, è lì. Di meno prevedibile, di più misterioso, sorprendente, miracoloso. Che è poi il mistero dell’agonia sulla croce e della morte in croce, del “perché mi hai abbandonato”, della disperazione massima sulla quale Qualcuno ha costruito il castello della redenzione.

E allora la salvezza si manifesta nel curato di campagna che muore in modo miserabile, abbandonato; nella piccola Mouchette, ragazza che ha alle spalle una vita miseranda, che ha subito la violenza, che muore suicida.

Nei Dialoghi delle Carmelitane di Bernanos, la donna “santa”, la superiora del convento, che è stata coraggiosa per tutta la vita, muore nella disperazione e nell’orrore, mentre la suorina, da sempre tormentata dalla paura della morte, affronterà gloriosamente e con serenità il patibolo.

Nel finale dell’Idiota, il protagonista, l’angelico protagonista, muore nell’amarezza, in modo strano.

Sembrano dirci, i nostri due amici, che i nostri calcoli sono una cosa, la verità e la volontà di Dio un’altra. E che le nostre anime sono teatro di un eterno conflitto cosmico tra il bene e il male, tra l’angelico e il demoniaco, e che restiamo creature, esseri dipendenti.

Via dunque le arroganze da presunta santità e perfezione, via l’orgoglio della verità posseduta e della vita ben vissuta.

La radicalità evangelica esige anche delle tremende sconfitte che restano per noi incomprensibili. Come la sconfitta finale sulla quale Lui costruisce grandiose vittorie.

 

Un pensiero fantastico e la cisterna profonda

 

Vorrei concludere con una pagina di ambedue che è di serena apertura verso il mistero dell’uomo. Tanto Bernanos che Dostoevskij credono che l’uomo sia spesso migliore di quanto non pensi.

Basta scavare dentro noi stessi per ritrovare infinite, insospettate possibilità.

In una pagina del Diario di uno scrittore Dostoevskij racconta di una festa da ballo, una cosa mediocre e triste come tante feste. E allora gli balza in testa “un pensiero fantastico, folle all’impossibile”:

 

Se tutti questi gentili e rispettabili ospiti volessero, anche soltanto per un istante, diventare sinceri e ingenui, in che cosa si trasformerebbe d’un colpo questa sala afosa?

Che accadrebbe se ciascuno di loro a un tratto venisse a sapere quanta lealtà, onestà, quanta sincera e cordiale allegria, quanta purezza, quanti sentimenti generosi, quante buone intenzioni ed intelligenza, quanto spirito del più fine, del più comunicativo c’è in ognuno, proprio in ognuno di loro. Sì signori, tutto questo c’è in tutti voi, ben chiuso in ciascuno e nessuno, nessuno ne sa nulla […].

Voi non credete di essere tanto belli? E io vi dico sulla mia parola d’onore che né in Shakespeare, né in Schiller, né in Omero, se si mettessero tutti insieme, si potrebbe trovare nulla di tanto delizioso come qui, in questo momento, si potrebbe trovare tra voi, in questa sala da ballo […].

Ma la vostra disgrazia è che voi stessi ignorate quanto siete belli. Non sapete che ognuno di voi se lo volesse potrebbe rendere felici tutti in questa sala e trascinare tutti con sé e questo potere esiste in ognuno di voi, ma così profondamente nascosto che già da molto tempo ha cominciato a sembrare inverosimile.

(Diario di uno scrittore, Sansoni, 1981, pp. 221-222)

 

E Bernanos riprende questa illuminazione sul bene nascosto tanto profondamente in ciascuno, e in un discorso che aveva rivolto a un gruppo di suore, uno dei suoi ultimi discorsi, parlò della “cisterna profonda”:

 

In ognuno di noi c’è la cisterna profonda aperta sotto il cielo. Indubbiamente la superficie è ancora ingombra di detriti, di rami spezzati, di foglie putride da cui sale un odore di morte.

Su di essa brilla una specie di luce fredda e dura che è quella dell’intelligenza ragionatrice, ma al di sotto dello strato malsano, l’acqua è subito tanto limpida e tanto pura.

Ancora un po’ più addentro, e l’anima si ritrova nel suo elemento natale, infinitamente più puro dell’acqua più pura: quella luce increata che avvolge tutta la creazione; in Lui era la vita e la vita era la luce degli uomini.

 

(“I santi nostri amici”, in Rivoluzione e libertà, Borla, 1963, p. 209)

 

 

 

Relazione tenuta al seminario di spiritualità dell’associazione Rosa Bianca “Radicalità evangelica e impegno civile” svoltosi a Firenze presso il Centro Studi Cisl il 7-8 dicembre 1992. Gli atti sono stati pubblicati in un numero monografico del “Margine” (n. 5, 1993).