È davvero singolare, almeno apparentemente: il più grande regista spirituale della storia del cinema è cresciuto e ha prodotto la maggior parte dei suoi film in Unione Sovietica, nella Russia comunista.
Stiamo parlando di Andrej Tarkovskij di cui abbiamo da poco ricordato i vent’anni dalla morte avvenuta in un ospedale di Parigi nella notte tra il 28 e il 29 dicembre del 1986.
Tarkovskij aveva 54 anni e da alcuni anni combatteva con il cancro.
Pochi giorni dopo, il 3 gennaio, veniva celebrata una funzione religiosa nella cattedrale Aleksandr Nevskij, in rue Daru a Parigi. Il regista veniva sepolto nel cimitero ortodosso della capitale francese.
Il paradosso di Andrej
Sarà un po’ complicato per le future generazioni capire come mai la storia del cinema spirituale del Novecento, del cinema spirituale cristianamente ispirato e di livello artistico assoluto (“Tarkovski è il più grande di tutti” ha detto Ingmar Bergman), sia passata attraverso gli studi della Mosfilm, la cinematografia di Stato del regime comunista, simbolo della mortificazione della creatività artistica e dei valori spirituali.
Si dirà che è passata di lì non senza problemi, anche gravi, perché Tarkovskij è stato a lungo ostacolato e alla fine è morto in esilio volontario.
D’accordo, ma comunque di lì è passata. Di lì, e non da un’altra parte.
Cinque dei suoi sette film li ha comunque prodotti la Mosfilm: L’infanzia di Ivan (1962), Andrej Rublev (1966), Solaris (1972), Lo specchio (1974), Stalker (1979).
In questi film non c’è niente del comunismo e c’è molto del cristianesimo, motto più di quanto non ce ne sia nei film di un qualsiasi altro regista occidentale.
Dove è possibile trovare nella nostra cinematografia un regista che nei suoi film parli in questo modo della fede, della preghiera, della speranza, del dolore, del sacrificio, dell’amore, e ne parli con le immagini, con le parole, con i silenzi, con il ritmo e a un così alto livello artistico?
Sarà forse ancora più complicato capire in futuro come mai l’Europa occidentale o l’America, che in quegli anni si facevano paladine dei valori spirituali cristiani e di quelli della libertà artistica minacciati, appunto, dal comunismo sovietico e dai suoi affiliati, non siano state capaci di produrre un regista spirituale all’altezza di Tarkovskij.
Avranno avuto i loro problemi, anche gravi, l’Europa dell’Ovest e l’America, ma comunque il grande cinema spirituale non è passato di qui, dalle nostre parti occidentali, cristiane per antonomasia.
È passato altrove, dall’altra parte. Strana cosa per i futuri interpreti del nostro tempo.
L’Europa occidentale ha prodotto meritoriamente i due ultimi film di Tarkovskij: l’Italia, con la Rai, ha prodotto Nostalghia (1983); la Svezia, con il suo Istituto del cinema, Sacrificio (1986).
L’Europa occidentale ha premiato, osannato, accolto Tarkovskij – Leone d’Oro a Venezia a L’infanzia di Ivan, premio della Critica a Cannes a Sacrificio; a Firenze c’e l’Archivio Tarkovskij, diretto dal figlio, che ha prodotto eccellenti iniziative – ma non è stata capace di generare qualcosa di simile.
E lui si è sempre sentito un pesce fuori dell’acqua lontano dalla sua Russia e immerso in un mondo divorato dal materialismo e dal consumismo che lui non ha cessato di denunciare come malattie mortali.
Pur essendo indubbie le libertà democratiche dell’Occidente, a chiunque è evidente la mostruosa crisi spirituale vissuta dai suoi “liberi cittadini”
scrive Tarkovskij in Scolpire il tempo, il suo libro-manifesto completato pochi giorni prima di morire.
L’eco difficile dell’Oriente cristiano
Che l’Europa, ma anche l’America, pur con minor sorpresa, non siano state capaci, e non lo siano tuttora, di far nascere un Tarkovskij, la dice lunga sull’atrofia spirituale della pretesa culla del cristianesimo.
E più si parla di valori cristiani, di battaglie di civiltà, di Occidente, più si sente che in realtà la nostra anima si sta restringendo e che abbiamo bisogno di qualcun altro, di qualcos’altro.
Vent’anni dopo la morte di Tarkovskij i suoi film continuano ad essere un pezzo di quel qualcos’altro di cui sentiamo di aver bisogno, e che qui non nasce.
Ricordare Tarkovskij vuol dire allora assolvere a un debito. Di gratitudine.
I suoi film sono tra le creazioni artistiche più stupefacenti della seconda parte del secolo che ci siamo da poco lasciati alle spalle, e chi ha avuto la ventura di imbattersi in esse cercando, senza mai pienamente riuscirci, di coglierne l’infinita ricchezza, ha avvertito, se non altro, che la propria anima si è allargata, che Tarkovskij l’ha davvero tirata da tutte parti, togliendola dall’atrofia, dal ripiegamento, e portandola a quelle dimensioni, a quel respiro, a quella nuova freschezza che solo le più profonde esperienze spirituali e artistiche possono donare.
C’è in tutto questo, è evidente, il peso della grande Russia e di tutta la sua immensa tradizione spirituale, teologica o letteraria o artistica che sia, e che il comunismo non è mai riuscito a soffocare, e con la quale a un certo punto è dovuto venire a patti.
C’è il peso enorme dell’Oriente cristiano nel suo complesso che le migliori scuole spirituali comunitarie italiane del nostro tempo, da quella di Divo Barsotti a quella di Giuseppe Dossetti a quella di Enzo Bianchi, per ricordare le più note, hanno cercato di recuperare come la parte mancante di quell’ “intero” che come cristiani abbiamo perduto.
Non è pero facile per noi avvicinarci a questa tradizione. È davvero la parte che ci manca, ma ci mancano ormai anche le strutture mentali e interiori per comprenderla.
E a fatica, con infinita pazienza, possiamo esercitarci a recuperarle. Guardando i film di Tarkovskij se ne coglie con una certa immediatezza, nelle immagini, nelle inquadrature, nei tempi, nei volti dei protagonisti, nei dialoghi, nei motivi ricorrenti, la potenza spirituale e artistica.
Essa avvolge e penetra di sé lo spettatore. Ma se ne avverte anche l’imperscrutabilità. A noi un mondo è precluso. È una lezione di umiltà per noi, perché scopriamo di trovarci di fronte a qualcosa di grande e di inafferrabile. Forse non irrimediabilmente, chi lo sa.
Un percorso trapuntato di speranza
Ma anche solo un po’ di Tarkovskij, quello che riusciamo ad afferrare, un poco di Rublev, un po’ di Stalker, un po’ di Nostalghia, un po’ di Sacrificio, a piccole dosi, ma ripetutamente, a cadenza periodica, bastano ad allargarci l’anima.
Le benemerite suore di San Paolo mettono a disposizione di chi li voglia nelle loro librerie, a un prezzo accessibile, tutti i film del grande russo, ad eccezione di Nostalghia che comunque è facilmente reperibile sul mercato.
A piccole dosi si può anche leggere il grosso volume dei Diari del regista (720 pagine delle Edizioni della Meridiana di Firenze, collegata all’Archivio Tarkovskij, anno 2002), che iniziano nel 1970 e terminano alla vigilia della morte, nel 1986.
Una lettura assolutamente unica, un’esperienza culturale e spirituale impagabile, che ci permette di avvicinarci alla appassionata e instancabile ricerca di Tarkovskij, ai suoi progetti, ai suoi sogni, ai suoi affetti, alle sue sofferenze, anche a quelle patite a causa delle burocrazie sovietiche, alle sue indistruttibili speranze nonostante tutto (lui è una persona dominata dalla speranza, come i protagonisti dei suoi film), ai suoi rapporti con gli altri registi, con gli scrittori, i libri, la Bibbia…
Negli ultimi mesi di vita, Tarkovskij progettava un film su Gesù, inevitabilmente, perché in tutti i suoi film l’immagine di Cristo è presente.
Che sia in un piccolo dipinto sulle macerie in L’infanzia di Ivan, o nei mirabili affreschi di Andrej Rublev nell’omonimo film, o in un’immagine sotto l’acqua in Stalker, o nelle pagine di un libro di icone in Sacrificio, fatto sta che per Tarkovskij il Cristo accompagna sempre le vicende degli uomini su questa terra, sempre, come una possibilità di vita diversa, come una speranza vera che non viene mai meno, anche quando gli uomini non lo vogliono, anche quando le situazioni sembrano irrimediabili.
Il 25 ottobre, due mesi prima di morire, Tarkovskij scriveva nel suo diario:
Girare il Vangelo e con questo finire? Ma come? Come girarlo? Il Vangelo di Luca è assai poetico e scritto molto armoniosamente. Matteo: “Profetizza, oh Cristo, indovina chi di noi ti ha colpito”. Luca: “Indovina, profeta, chi di noi ti ha colpito!”.
“Da mezzogiorno fino alle tre del pomeriggio si fece buio su tutta la terra” (Matteo); “Venuto mezzogiorno, si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio” (Marco); “Era verso mezzogiorno quando il sole si eclissò e si fece buio su tutta la terra fino alle tre del pomeriggio” (Luca). In Giovanni l’eclissi di sole non viene riportata. Che lavoro incredibilmente difficile… Non è nemmeno un lavoro…
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Articolo pubblicato su “Appunti di cultura e politica”, marzo-aprile 2007.