Oscar A. Romero, il difensore dei poveri ucciso sull’altare

 

Oscar A. Romero

 

L’Ospedale della Divina Provvidenza di San Salvador, gestito dalle missionarie carmelitane di Santa Teresa, ospita un centinaio di malati di cancro, tutti poveri. Qui ha deciso di abitare l’arcivescovo Oscar Arnulfo Romero.

Per alcuni mesi alloggia in una stanza attigua alla sagrestia della cappella, poi, le suore, impietosite dall’esiguità dello spazio in cui è costretto a muoversi l’illustre ospite, faranno costruire una piccola casa adiacente all’ospedale, in tutto due stanze da letto e un soggiorno, e la regaleranno all’arcivescovo per il suo sessantesimo compleanno.

«Monsenor», come lo chiamano, mangia con le suore e al mattino presto celebra per loro e le infermiere la messa. Un amico che gli fa anche da autista lo porta quindi con la macchina agli uffici dell’arcivescovado dove lo attendono innumerevoli impegni e gravissime questioni.

Romero è totalmente immerso nella tragedia del suo paese, che sta incamminandosi verso una sanguinosa guerra civile, ma difende con ostinazione i momenti quotidiani di solitudine e di isolamento.

È rimasto anche adesso il solitario di sempre, quello che si è specializzato in teologia asce­tica, che è fedele alla pratica degli esercizi spirituali di Sant’Ignazio di Loyola, che considera sacri e intoccabili i momenti di raccoglimento che precedono e seguono la messa, che ama le lunghe notti silenziose per pensare e scrivere, meditare e pregare.

L’ “ospedaletto” gli garantisce quella solitudine quotidiana di cui non può fare a meno e quella povertà che ha scelto come compagna di strada.

 

Assassinato sull’altare

Ed è qui, nella chiesetta dell’ospedale che viene assassinato il 24 marzo 1980.

Quel giorno la messa era stata spostata alla sera, alle 18. Era una messa in memoria della madre di un amico di Romero, Sorge Pinto, direttore del settimanale «El Indipendiente» e ne era stato dato annuncio anche sui giornali. Vi assistono i familiari e i parenti della defunta, alcune suore ed infermiere, qualche ma­lato. C’è anche un giornalista. L’arcivescovo si sofferma per dieci minuti sulle letture del giorno, 1 Corinzi 15,20-28:

Ora, invece, Cristo è risorto dai morti, primizia di quelli che sono morti… L’ultimo nemico ad essere annientato sarà la morte, perché ogni cosa ha posto sotto i suoi piedi »;

e Giovanni 12, 23-26:

È giunta l’ora che sia glorificato il Figlio dell’uomo. In verità, in verità vi dico: se il chicco di grano caduto in terra non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto. Chi ama la sua vita la perde e chi odia la sua vita in questo mondo, la conserverà per la vita eterna.

Il celebrante sa, e con lui tutti i presenti, quale tremendo significato assumano in quel momento quelle parole. Da mesi è minacciato di morte e alla sua possibile uccisione ha fatto egli stesso riferimento in più di una occasione.

 

Soldati, vi supplico, vi ordino: non uccidete i vostri fratelli!

Da quando era stato scelto come arcivescovo di San Salvador, tre anni prima, Oscar Romero era diventato la coscienza morale del paese, il protettore dei deboli, il profeta che denunciava senza timori e faziosità la responsabilità del potere nella impressionante sequenza di delitti e violenze che tormentavano la piccola e povera repubblica.

Romero si era fatto così molti e potenti nemici. Sapeva di poter morire e ne aveva paura.

 

Chi di­rebbe che « Monseñor » ha paura di morire?

Il giorno prima di quella fatidica messa per Dona Santa, domenica 23 marzo, aveva pro­nunciato in cattedrale un’altra, memorabile omelia. E l’aveva conclusa invitando, con un’audacia che sfiorava l’incoscienza, i soldati a non uccidere:

Fratelli, siete del nostro stesso popolo, uccidete i vostri stessi fratelli campesinos e davanti all’ordine di uccidere dato da un uomo deve prevalere la legge di Dio che dice non uccidere…

Nessun soldato è obbligato ad obbedire a un ordine contro la legge di Dio… Una legge immorale nessuno è tenuto a rispettarla…

Vi supplico, vi prego, vi ordino in nome di Dio cessate la re­pressione!

 

Era un uomo che aveva paura quello che invitava i soldati all’obiezione di coscienza? E invece Romero, uomo innamorato della vita, potremmo dire «carnalmente» innamorato della vita come ci rivelano i suoi quaderni di appunti, ha paura.

 

Con umiltà verso il martirio

E adesso, nella chiesetta dell’ospedale, mentre celebra in memoria di Dona Santa, sa che quell’antica Parola che sta commentando si riferisce a lui. Si sta preparando al martirio anche con umiltà.

Da ecclesiastico consumato e da spiritualista rigoroso qual è sa che dietro un’eroica scelta ci può essere accanto all’angelo del coraggio il demone della superbia. Per questo aveva scritto in quei suoi quaderni:

Ho paura della violenza contro la mia persona. Sono stato avvertito di serie minacce… Temo per la debolezza della mia carne, ma chiedo al Signore di darmi serenità e perseveranza. E anche umiltà, perché sento la tentazione della vanità.

Ed è con questo spirito che conclude l’omelia:

Che questo corpo immolato, che questo sangue sacrificato per gli uomini siano alimento per noi, affinché anche noi offriamo il nostro corpo alla sofferenza e al dolore, come Cristo, non per noi stessi, ma per dare segni di giustizia e pace al nostro popolo. Uniamoci allora intimamente nella fede e nella speranza in questo momento di preghiera per Dona Santa e per noi.

Ha appena finito che un colpo d’arma da fuoco sparato da un ignoto sicario a una distanza di non più di quindici metri lo colpisce in pieno petto.

L’arcivescovo si accascia senza un grido.

Il proiettile, piccolo e micidiale, gli è esploso dentro in tante minuscole e laceranti schegge.

 

Il vescovo Romero, colpito a morte da un sicario mentre celebra la messa, cade ai piedi del crocifisso. (ANSA-UPI)

 

La macchina fotografica del giornalista presente fissa per sempre la tragica scena: il vescovo morente ai piedi dell’altare, il volto insanguinato; le suore angosciate, piegate su di lui. Sulla parete, dietro l’altare, un grande crocifisso con il Cristo che alza dolente lo sguardo al cielo.

Romero morirà mezz’ora dopo.

 

Monsignor Romero riverso a terra, morente, tra la disperazione delle suore dell’ospedale che assistevano alla messa. (ANSA-UPI)

 

 

Un paese schiacciato dallo sfruttamento

Il Salvador è il più piccolo stato di quella stretta lingua di terra chia­mata Centro America, una zona esplosiva dove si è consumato in questi anni un dramma sociale e politico di inaudite proporzioni.

Ottantamila morti e quarantamila «scomparsi» in Guatemala prima del recente avvento della democrazia; lunghissima e spietata ditta­tura in Nicaragua prima della sanguinosa guerra civile e la conqui­sta del potere da parte della sinistra; militari al potere in Honduras. Solo Costarica e Panama possono vantare una democrazia civile.

E poi il Salvador, il più piccolo, il più povero con i suoi 50.000 morti.

Un’umilissima, povera casa su cui nessuno avrebbe posato gli occhi se un tremendo cataclisma sociale, molto simile ai tanti terremoti che la scuotono, non l’avesse squarciata da cima a fondo offrendo agli sguardi curiosi o preoccupati o interessati o frettolosi dell’opinione pubblica mondiale lo spettacolo triste delle sue interne miserie.

Il Salvador, grande come la Toscana, ha una secolare storia di fortissimi squilibri sociali e dittature militari, che è poi la storia di tutta l’America Latina.

Dopo l’indipendenza dagli spagnoli nella pri­ma metà del secolo scorso, la creazione della repubblica presidenziale e i tentativi di federazione con gli stati vicini, il Salvador conosce solo una lunghissima serie di governi militari con rari ed effimeri intermezzi di governi civili.

Le compagnie americane vi stabiliscono forti interessi con il commercio di caffè, banane e zucchero.

La progressiva emarginazione degli interessi europei (“L’America agli americani”) spinge gli Stati Uniti, diventati potenza mondiale dopo la guerra ‘14 -‘18, a porre anche una crescente ed energica tutela politica su tutta l’America Latina e quindi anche sul piccolo Salvador. Tutela che assume i caratteri di un intransigente anticomunismo, esasperatodall’accentuarsi del conflitto ideologico ed economico internazionale con l’Unione Sovietica.

Difesa di interessi economici ed anticomunismo sono alla base dell’appoggio che gli Stati Uniti danno ai governi militari, alle oligarchie, ai partiti, ai gruppi che tradizionalmente detengono la ricchezza e il potere e che si oppongono ai cambiamenti che intaccano i loro privilegi.

Con l’insediarsi di un governo comunista a Cuba (1959) e più recentemente in Nicaragua (1979) l’anticomunismo diventa ossessione, fanatica religione finendo così per rovesciarsi contro se stesso, per generare esso stesso i mostri che intendeva combattere.

Esigenze di giustizia, di riscatto dalla miseria e dall’ignoranza in cui vive la maggioranza della popolazione vengono umiliate, perseguitate come comunismo e filosovietismo radicalizzando in tal modo la protesta.

 

Monsignor Romero con un gruppo di famiglie nel 1978. (ANSA-UPI)

 

Il Salvador, montuoso, arretrato, terremotato ha 5 milioni di abi­tanti e il più alto incremento demografico dell’America Latina; il 40% di analfabeti e di mortalità infantile; il 4% della popolazione possiede i 2/3 delle terre coltivate.

Grandi e moderne aziende agricole in mano a pochi, arretratezza e poco spazio per i piccoli proprietari e migliaia di sovrabbondanti braccia senza terra incoraggiano sfruttamenti ed emigrazione, piaga endemica del paese e che è all’origine della guerra, nel 1969, con il vicino Honduras generata da una partita di calcio tra le due nazionali.

La recessione economica mondiale seguita alla crisi petrolifera dei primi anni Settanta finisce per colpire i più poveri i cui interessi vengono difesi dalle nuove forze politiche emergenti, la Democrazia Cristiana e i vari raggruppamenti di sinistra, forze politiche che crescono con lo svilupparsi anche della nuova linea teologica e pastorale che la chiesa cattolica ha assunto, pur tra divisioni e contraddizioni, dopo il Concilio e le conferenze dell’episcopato latino-americano a Medellìn, nel 1968, e quindi a Puebla, nel 1979.

Ma la destra politico-economica appog­giata dall’esercito non accetta ridimensionamenti. Brogli elettorali sconfiggono alle presidenziali del 1972 Duarte, democristiano, can­didato unico della DC e delle sinistre, opposto al candidato della destra, e lo costringono ad un lungo esilio.

La repressione contro la sinistra si accentua e dal ‘75 cominciano ad apparire i primi gruppi di guerriglia.

La difesa di antichi privilegi, l’ossessione anticomuni­sta e l’ottusità politica degli Stati Uniti, ben più che non il diffondersi mondiale di movimenti rivoluzionari, sono all’origine della radicalizzazione del conflitto politico e sociale su cui pesa anche una storica assenza di maturità democratica che porta a semplificazioni estreme nei modi di pensare e fare politica.

In questo clima va inserita la storia di Romero, parte della storia del suo popolo e di una chiesa sempre più alla ricerca di una testimonianza veritiera del Vangelo.

 

Dopo l’uccisione di padre Rutilio, la conversione

L’arcivescovo Romero non era sempre stato l’uomo pericolosissimo che bisognava eliminare. Pericoloso lo era diventato a sessant’anni, età in cui di solito si lasciano i pericoli, se mai ve ne sono stati. Nella vita di Oscar Romero c’è un avvenimento fondamentale ed è la sua «conversione». Una svolta avvenuta pochi giorni dopo la sua elezione ad arcivescovo di San Salvador.

«Monseñor» era sempre stato quello che si dice un «conservatore». Come sacerdote prima e come vescovo poi si era mostrato diffidente verso la «scelta dei poveri» fatta propria dalla chiesa latino-americana. Per questo era stato scelto come arcivescovo della capitale nel febbraio del 1977.

Si voleva dare un colpo di freno alle spinte innovatrici della diocesi di San Salvador, la più importante del paese, dopo il progressista governo del vecchio arcivescovo Luis Chàavez y Gonzàlez. Così sul fronte dei progressisti sarebbe rimasto il solo monsignor Arturo Rivera Damas (attuale successore di Romero) sul totale di sei vescovi che comprendevano la conferenza episcopale.

 

 

Il libro “Romero…y lo mataron” (AVE, 1980, pp. 276) raccoglie scritti e discorsi dell’arcivescovo. “Infine, un  invito all’oligarchia. Vi ripeto quello che ho detto l’altra volta: non consideratemi un giudice o un nemico. Sono semplicemente il pastore, il fratello, l’amico di questo popolo che conosce la sofferenza, la fame, l’angoscia; e in nome di queste voci alzo la mia per dire: non idolatrate la vostra ricchezza, non salvatela a costo di lasciar morire di fame gli altri” (omelia del 6 gennaio 1980).

 

Ma accadde l’imprevisto.

Il 12 marzo 1977, poche settimane dopo la nomina di Romero ad arcivescovo, venne assassinato padre Rutilio Grande, amico di lunga data di Romero, un gesuita conosciuto in tutto il Salvador per la sua coraggiosa pastorale tra i contadini più poveri.

L’arcivescovo Romero prega e medita tutta la notte accanto all’amico ucciso.

Quel­la morte lo cambia, gli apre nuove finestre sulla realtà.

Il giorno dopo chiede invano spiegazioni convincenti al presidente della Repubblica, il colonnello Molina, e fa celebrare, scontrandosi duramente per questa scelta col Nunzio apostolico, un’unica messa di suffragio a San Salvador perché la diocesi desse una dimostrazione unitaria di preghiera e di protesta.

Vi assisteranno centomila persone e Romero vi pronuncerà un’accorata e ferma omelia difendendo la po­sizione profetica della chiesa e respingendo come calunnie le accuse di sovversione. Nasce il Romero profeta e martire.

Una vera e propria conversione. Eppure, più che una repentina illuminazione essa si rivela il momento decisivo di un lungo, lento processo. Come sempre accade in un uomo in carne ed ossa.

 

L’amore per la solitudine e la perfezione spirituale

Oscar Arnulfo Romero era nato il 15 agosto 1917 a Cìudad Barrios, un villaggio agricolo della regione orientale del Salvador, ai confini con l’Honduras. Sua madre era contadina, suo padre telegrafista. Era quest’ultimo che insegnava ai figli il catechismo.

Una grave malattia colpì Oscar quando aveva cinque anni e gli provocò una temporanea paralisi agli arti. La malattia lasciò a lui frequenti disturbi e un fragile sistema nervoso che lo portava a sentirsi insicuro, a isolarsi, a non stabilire sereni rapporti con gli altri.

Anche negli ultimi anni della sua vita Romero consultava regolarmente uno psicologo cli­nico e i proprietari terrieri che cercavano ogni pretesto per farlo tacere tenteranno di farlo passare per malato di mente. Solo nei mesi che precedettero la morte Romero raggiunse una completa se­renità interiore e quell’equilibrio che aveva sempre cercato. Paradossalmente li conseguì nel periodo in cui fu sottoposto alle più terri­bili tensioni.

Frequentò, con sacrifici economici da parte dei suoi, il seminario della cittadina di San Miguel e mise subito in luce le sue doti: capacità di riflessione, volontà di ferro, facilità di parola.

Alcuni capisaldi della sua futura spiritualità come l’affetto alla fi­gura del Papa, il coraggio del sacerdote di fronte alle persecuzioni, la devozione alla Madonna e al Sacro Cuore sono già presenti nei quaderni di esercizi retorici del quindicenne Oscar.

A vent’anni andò a Roma a studiare al collegio Pio Latino Americano retto dai Gesuiti spagnoli.

I sei anni trascorsi a Roma furono decisivi per la sua formazione.

Imparò dai Gesuiti, cui resterà legato per tutta la vita, la costante ricerca della perfezione spirituale attraverso il me­todo del loro fondatore e coltivò con passione gli amati studi mi­stici e ascetici cui lo indirizzò la sua natura di solitario.

Roma gli lasciò un inflessibile rispetto per il Papa.

Quelli furono anche an­ni di guerra e il giovane Romero restò colpito dalla ferma presa di posizione di Pio XI contro il nazismo: «Questo è il Papa che io ammiro di più» dirà nel 1980. Fu ordinato sacerdote il 4 aprile 1942.

Tornò in patria nei primi giorni del ‘44 e fu nominato segretario di Curia a San Miguel dove ben presto si scontrò con il giovane clero.

 

La carriera di un conservatore

Romero era un sacerdote di grandi doti morali, intellettuali, organizzative ma aveva un carattere difficile, rigido, poco diplomatico e cordiale. Un disastro in fatto di rapporti umani. La sua os­sessiva intransigenza in fatto di etica sessuale creò un pesante clima di proibizioni e sospetti ingiustificati che spinse il giovane clero a invocarne il trasferimento. Ma Romero resterà a San Miguel ventitré anni.

Nella cittadina si fece però amare per il suo intensissimo apostolato: poveri, carceri, catechesi, gruppi parrocchiali. E poi assistente della Caritas, rettore del seminario minore, direttore del settimanale diocesano. Fondò innumerevoli associazioni di ogni tipo tese soprattutto a due scopi: la raccolta di fondi per la nuova cattedrale e la diffusione del culto della Vergine della pace. Un difficile, intransigente conservatore.

Forti divergenze col nuovo vescovo dì San Miguel consigliarono una sua «promozione», prima a «monsignore » e, l’8 giugno 1967, a segretario permanente della Conferenza Episcopale a San Salvador.

I rinnovamenti conciliari lo lasciavano perplesso. Nella capitale consolidò i suoi legami col Nunzio apostolico, roccaforte dei conservatori, e continuò ad avere buoni rapporti con l’Opus Dei, la potente associazione cattolica internazionale, pur non facendone mai parte. Rapporti che non vennero mai meno.

La sua carriera ecclesiastica aveva ottimi protettori e il 21 aprile 1970 il Nunzio gli notificò la nomina a vescovo. Monsignor Romero scrisse nei suoi quaderni di appunti (una sorta di diario del suo cammino spirituale):

Di fronte alla tentazione del trionfalismo: vedere nel vescovato una seria responsabilità, un servizio per nulla facile, un lavoro alla presenza di Dio. Di fronte alla tentazione della pusillanimità: considerare l’episcopato di Dio un servizio e una guida per milioni di anime. Il Buon Pastore dà la vita per le sue pecorelle.

Credeva davvero nella fede che predicava e nel compito che si era assunto. C’era già, ancorché conservatore, il futuro profeta e martire.

Dal ‘70 al ‘74 fu vescovo ausiliare di San Salvador accanto all’altro ausiliare, mons. Rivera Damas. Quindi diventò ve­scovo di Santiago de Maria.

Il rigido sacerdote diventato pastore fu costretto a sgelarsi, a indirizzare, a guidare. Pro o contro la linea di Medellin? Questo fu il problema pastorale più inquietante e Romero, che era sempre stato dalla parte del «contro» fu obbligato a vedere in profondità anche i lati positivi di quella linea pastorale che fino ad allora aveva considerato come una pericolosa e innaturale invadenza del campo politico.

Ma per lui la soluzione dei pro­blemi passava attraverso la carità e il dialogo con le autorità. Questo era Romero quando divenne arcivescovo.

La sua vita, segnata così straordinariamente dalla conversione davanti al corpo di padre Rutilio Grande rivela però, in profondità, un rigoroso sviluppo di lontani germi di spiritualità. Alla base c’è quella costante, scrupolosa fino all’ossessione, ricerca di perfezione interiore che resta il dato fondamentale del sacerdote Romero.

 

Ora è isolato nella «sua» chiesa

Con l’omelia per padre Rutilio Grande l’arcivescovo aprì un nuovo capitolo nella sua vita, ma anche un nuovo stile pastorale. Ai rapporti con le autorità sostituì il contatto diretto con la gente e la presenza in prima persona dentro la tragedia del suo paese, dove la protesta sociale veniva duramente repressa e i diritti umani calpestati.

 

 

Le omelie e la radio furono gli strumenti di questa pastorale cui si aggiunsero le numerose visite in tutta la diocesi. Nel generale clima di intimidazione le sue omelie domenicali divennero oltre che profonde e semplici riflessioni sulle letture del giorno dei dolorosi ed inequivocabili bollettini di guerra:

Furono catturati nella loro casa nel distretto di San Miguel Nance Verde, don JosèAlvarado e le sue figlie Carmen Alvarado e Maria Josef a Alvarado e furono trovati morti in una piantagione di caffè dietro l’eremo del distretto di San Juan Miraflores Arriba. Sono stati sepolti il giorno seguente dai loro familiari nella fossa comune…

Anche in un’altra comunità del dipartimento di Cuscatlan, in Candelaria, si denuncia che la Guardia nacional… .

 

E sovente l’elenco era lungo, lungo. Uno spietato atto di accusa che la radio, finanziata da un gruppo di associazioni americane, portava in tutto il Salvador e i numerosi paesi confinanti. Le autorità dicevano che erano stati uccisi dei guerriglieri: Romero dimostrava che erano contadini inermi.

Nei suoi confronti si scatenò un’opposizione violentissima da parte dei proprietari terrieri e della destra politica con minacce e con calunniose campagne di stampa.

Ma l’opposizione che più costava al pastore Romero era quella interna alla sua chiesa.

Degli altri cinque vescovi solo Rivera Damas era con lui. Gli altri, unitamente al Nunzio, gli erano esplicitamente contro. Ma non con mormorazioni nelle sagrestie, bensì con pubbliche dichiarazioni ed espliciti rapporti in Vaticano. «Non esiste una chiesa perseguitata. Ci sono alcuni che hanno perso la strada », diceva il vescovo Alvarez.

 

Abramo Levi, “Oscar Arnulfo Romero un vescovo fatto popolo”, presentazione di David M. Turoldo, Morcelliana, 1981, p. 147. “Gli occhi di Romero si abituano sempre di più a guardare con pietà e senza orrore i corpi dei torturati e degli uccisi come il corpo stesso di Cristo presente nei poveri” (A. Levi).

 

Accusavano Romero di filo-marxismo e di essere responsabile delle divisioni della chiesa.

E Roma si divideva su Romero che più volte si recò in Vaticano.

Gli vennero incoraggiamenti da Paolo VI, inviti alla moderazione da Casaroli, durissimi rimproveri dal cardinal Baggio, prefetto della Congrega­zione dei vescovi, poche approvazioni da parte di Giovanni Paolo II molto preoccupato dell’unità della chiesa salvadoregna.

Romero lasciava la Santa Sede ora sconfortato ora incoraggiato. L’ultimo incontro che ebbe con Giovanni Paolo II lo giudicò positivo.

Ma soffriva nel non veder pienamente riconosciuto quel suo servizio al popolo e alla chiesa che amava con fedeltà inossidabile, lui che era romano di formazione.

Erano certo riconoscimenti importanti per lui le lauree «honoris causae» che per la sua coraggiosa attività aveva ricevuto dall’università americana di Georgetown e da quella belga di Lovanio, così come il Premio Pace dell’associazione ecumenica svedese e la designazione allo stesso Nobel per la pace.

Ma ad essi avrebbe preferito una pubblica, seppur minima, approvazione da parte di Roma.

 

Un vescovo innanzitutto pastore

L’arcivescovo Romero non era né un marxista né un ispiratore della guerriglia come l’ossessione anticomunista delle destre, dei quattro vescovi e del Nunzio, e autorevoli ambienti del governo americano sostenevano.

In realtà egli era anzitutto un pastore della chiesa e nessuno poteva, se non in malafede, mettere in discussione il suo zelo nel promuovere la catechesi, la preparazione ai sacramenti (che esigeva più rigorosa di altri vescovi suoi accusatori), la liturgia.

 

James R. Brockman, “Oscar Romero fedele alla parola”, Cittadella, 1984, p. 416. L’autore conclude questa sua notevole biografia ricordando le parole che l’arcivescovo disse, due settimane prima della morte, al giornalista José Calderon Salazar: “Sono stato spesso minacciato di morte. Ciò nonostante, come cristiano, non credo nella morte senza risurrezione. Se mi uccidono risorgerò nel popolo salvadoregno”.

 

E il clero della sua diocesi lo adorava e con lui aveva ritrovato unità e slancio. La chiesa era vivissima proprio nella componente più «spirituale». Questo scrissero anche in Vaticano centinaia di sacerdoti, numerosi vescovi di tutto il mondo, ordini religiosi, prestigiose università cattoliche.

Romero fu innanzitutto vescovo della chiesa, ma proprio perché avvertì in tutta la sua portata questo ruolo (e fin dai primi momenti, come ci hanno ricordato i suoi appunti) fu anche l’inflessibile difensore dei diritti del popolo: diritto di organizzarsi politicamente e sindacalmente, sotto ogni bandiera, anche comunista; diritto al pane e al lavoro, alla salute e all’istru­zione; diritto anche di difendersi dalla violenza del potere.

Egli riba­diva la tradizionale dottrina cattolica circa la legittima difesa e la «Populorumprogressio» di Paolo VI sulla liceità dell’insurrezione come estremo rimedio contro un brutale potere tirannico.

Sapeva che molti erano stati costretti dalla disperazione e dallo stesso bisogno di sopravvivenza a rifugiarsi nella guerriglia. E di questo incolpava i poteri repressivi: «Sono loro il vero germe e il vero pericolo del comunismo che ipocritamente denunciano».

Ma era alla radice un non-violento e non cessò mai di condannare la vio­lenza come strumento di lotta politica:

Fare la rivoluzione non è uccidere altre persone, perché solo Dio è il padrone della vita.

 

In quanto al marxismo Romero scrisse in una delle sue quattro lettere pastorali:

 

Il mio atteggiamento nei confronti del marxismo è quello della Chiesa, come è definito in numerosi documenti. La coincidenza nelle critiche contro il regime, il sistema e le strutture non significa una coincidenza negli obiettivi finali (…).

Non c’è una strategia comune tra cattolicesimo e il comunismo nelle sue diverse forme. Una predicazione puramente politica non rappre­senta la Chiesa (…). Siamo contrari a qualunque tipo di totalitarismo e di autoritarismo politico. Se il regime del Salvador cambiasse da un polo all’altro, dall’estrema destra all’estrema sinistra, la missione della Chiesa non cambierebbe.

 

Romero chiedeva però che fosse riconosciuta la legittimità delle Organizzazioni Popolari, braccio politico della sinistra, perché senza un loro concorso nel go­verno questo non avrebbe avuto una sufficiente base popolare. Si rivolgeva alta sinistra invitandola a non cadere nella scelta violenta; alla Democrazia Cristiana perché accentuasse i programmi di riforma; alle formazioni politiche di destra perché si assumessero la responsabilità della repressione e cambiassero strada.

 

E. Monzani, M. Marelli, “Monsignor Romero nobel dei poveri” (Edizioni Messaggero, 1980, p. 140). “Il Salvador è come il resto del mondo dove non c’è pace, ove i diritti degli uomini sono calpestati, ove la legge del più forte domina sovrana: tanti, troppi paesi segnati dalla sorte; ma anche tanti, troppi popoli che pagano senza avere colpe” (dall’introduzione degli autori).

 

Romero favorisce il dialogo, ma il nuovo governo fallisce

L’arcivescovado diventò il luogo di incontro delle parti interessate al dialogo e alla collaborazione. E protestava con il presidente americano Carter che continuava a sostenere l’esercito e quindi ad alimentare la repressione. Ossessione anticomunista, difesa di antichi privilegi ed ottusità politica si univano nel contrastare il progetto di governo democratico con ampie basi popolari che era la sola alternativa alla guerra civile.

Carter sembrò comprenderlo e appoggiò un colpo di stato che il 15 ottobre 1979 rovesciò, senza sparare, la vecchia giunta militare. I giovani colonnelli che si erano impadroniti del potere annunciarono riforme politiche ed economiche ela costituzione di un governo coi civili. Vi entrarono democristiani, sinistra e destra moderata.

L’arcivescovo appoggiò pubblicamente il nuovo governo che invece fu subito violentemente contrastato dalla guerriglia di sinistra. All’imbecillità di questa si unì «l’intelligenza » della destra che con le forze di sicurezza e le bande armate accentuò la repressione.

Sebbene il nuovo governo avesse varato la riforma agraria e la nazionalizzazione delle banche non controllava di fatto la situazione. Il barlume di speranza durò poche settimane.

Svuotato di capacità operativa, paralizzato dall’opposizione della guerriglia e dai crescenti crimini dell’esercito il governo si frantumò. Le sinistre lo abbandonarono, la DC si spaccò e la sua ala sinistra formò un nuovo raggruppamento. I colonnelli cercarono di fare un nuovo governo ma solo il vecchio troncone della DC capeggiato da Duarte accettò. La grande coalizione era morta. Duarte finiva per dare una copertura a una repressione che non era mai venuta meno.

L’arcivescovo cercò di tenere aperto il dialogo tra le parti invitando nel­lo stesso tempo Duarte a far cessare la repressione o a confessare la propria impotenza.

Poi, il 23 marzo, lanciò dalla cattedrale quel disperato «ordine» ai soldati: «non uccidete!».

Deluso, triste, eppur pieno di coraggio e di fede si recò il giorno dopo a celebrare la messa all’«ospedaletto». La sua ultima messa.

 

Ucciso dai “difensori della fede”

Sette anni sono passati dalla morte di Romero e la tragica partita tra sinistre, Democrazia Cristiana, esercito-destra è a un punto morto perché non si riesce ad attuare quell’unica soluzione possibile che le forze migliori di quel piccolo paese (a partire dal vescovo Rivera Damas) continuano a cercare e che forse sette anni fa poteva realizzarsi all’ombra di un uomo di così grande prestigio come Ro­mero: la grande coalizione.

Ma questo comportava e comporta non solo l’accantonamento da parte della sinistra estrema della speranza di vittoria totale con le armi e la sua accettazione del confronto politico, ma comportava e comporta, soprattutto, incrinare un dogma della «religione» anticomunista. Un prezzo che molti non vo­gliono pagare.

Robert White, ambasciatore americano nel Salvador dal marzo 1980 (aveva assunto l’incarico poco tempo prima che Romero fosse ucciso) al febbraio 1981, quando fu licenziato da Reagan, fresco presidente degli Stati Uniti, indicò, come altri avevano fatto, nel maggiore d’Aubuisson (poi candidato delle destre alle elezioni presidenziali del 1984 in cui fu sconfitto di stretta misura da Duarte) il mandante dell’assassinio di Romero aggiungendo che

Fin dai pri­mi giorni del suo insediamento alla Casa Bianca il governo Reagan seppe… che Robert d’Aubuisson progettò e ordinò l’assassinio dell’arcivescovo O. A. Romero. Io l’ho saputo, il Dipartimento di stato l’ha saputo, il Pentagono e la Casa Bianca lo hanno saputo». Ma d’Aubuisson non fu per questo perseguito.

 

Qualunque siano state le responsabilità dirette nell’omicidio esso fu compiuto da un potere che si proclamava difensore della fede.

Anche lo zelante Enrico VIII si era guadagnato il titolo di «defensor fidei» per certe sue energiche dissertazioni teologiche contro i protestanti, ma quando quella fede si presentò come ostacolo alla sua politica non ebbe dubbi nel ghigliottinare il cardinal Fisher e Tommaso Moro.

Poco tempo prima di morire Romero aveva assistito a un dramma teatrale ispirato alla vicenda di Tommaso Moro. Con altrettanta lucidità, tristezza e coraggio si apprestò a morire sotto i colpi del nuovo «defensor fidei» e a condividere, lui, principe del­la chiesa, la sorte di tanti poveri diavoli.

 

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Articolo pubblicato su “Il Margine”, n. 2, 1987 con la seguente “Nota bibliografica”:

 

Nota bibliografica

Le migliori biografie su Romero pubblicate in Italia, e alle quali abbiamo abbondantemente attinto, sono quella del suo segretario, Jesùs Delgado, Monseñor: vita di Oscar Arnulfo Romero, Roma, Edizioni Paoline, 1986, p. 191, con un’importante premessa del vescovo Rivera Damas, e quella del giornalista americano James R. Brockman, Oscar Romero, fedele alla parola, Assisi, Cittadella Editrice, 1984, p. 416.

Profili biografici scritti troppo «a caldo» per essere approfonditi e obiettivi e con una interessante parte documentaria offrono invece: Egidio Monzani e Marco Mareli, Monsignor Romero Nobel dei poveri, Padova, Edizioni Messaggero, 1980, p. 140 e AA.VV., Il vescovo Romero martire della sua fede per il suo popolo, Bologna, Emi, 1980, p. 138.

Un esempio di interpretazione politica di parte della figura di Romero in Plàcido Erdozain, Monsignor Romero martire della chiesa, Bologna, Emi, 1983, p. 130. L’editrice ha preso le distanze con un’equilibrata e approfondite introduzione di Massimo Toschi.

Un appassionato profilo spirituale di Romero basato sulle sue omelie in Abramo Levi, O. A. Romero: un vescovo fatto popolo, presentazione di David Maria Turoldo, Brescia, Morcelliana, 1981, p. 147.

Una raccolta di omelie, lettere pastorali, interviste in Romero… y lo mataron, presentazione di Mario Agnes, Roma, A.V.E., 1980, p. 276. I testi, purtroppo, non sono sempre integrali.

Da non dimenticare Raniero La Valle e Laura Bimbi, Marianella e i suoi fratelli. Una storia latino-americana, Milano, Feltrinelli, 1983, p. 218, volume dedicato a Marianella Garcia Villas, altro martire salvadoregno.

Con serietà e puntualità la vicenda di Romero e del Salvador è stata seguita dalle riviste «Aggiornamenti sociali» e «Il Regno» i cui articoli ci sono stati di grande utilità. «Il Regno» ha pubblicato anche alcuni importanti documenti tra cui la prima lettera pastorale di Romero (n. 1/1978), l’omelia in cattedrale del 23 marzo 1980 e quella delle sua ultima messa (n. 11/1980).

Una bellissima riflessione sul martirio di Romero, “Il martiro in America Latina”, è quella che il teologo Armido Rizzi ha presentato a Trento, su invito dell’associazione «O. Romero» e del Margine, il 24 marzo 1986 e che è stata riportata integralmente sul n.7/1986 del Margine.

 

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