Riccardo Maroni e l’editoria come passione umana e civile

Luglio 1988, Riccardo Maroni nella sua casa di Pieve di Ledro dove soleva trascorrere le estati. L’ingegnere, nato a Riva del Garda, viveva a Trento. (Foto di Vincenzo Passerini)

 

Prende l’ultimo libro di Giovanni Spadolini, Gli uomini che fecero l’Italia. Seconda galleria di ritratti, e mi dice: “Lo legga, è scritto magnificamente. Pochi in Italia sanno scrivere di storia come lui”. Il libro, come sempre, porta i segni di una scrupolosa lettura: sottolineature, annotazioni, citazioni di altri testi.

Riccardo Maroni, 96 anni il 17 luglio 1992, conserva intatto l’amore per i buoni libri. Come pure il disprezzo per i cattivi.

 

Passione per l’editoria, passione per l’amicizia

Li passa al laser della sua memoria e della sua esperienza di editore che ha dato alle stampe decine e decine di perfetti volumetti. Impietosamente ne rileva i refusi, le impaginazioni inadeguate, gli sprechi di spazi e poi le dimenticanze, i pressappochismi, le date errate.

Si esercita soprattutto sui libri pubblicati in Trentino perché sono quelli che più vorrebbe apprezzare e che invece più di frequente lo deludono. Vi trova troppa ostentazione, spesso, poca misura. Non di rado li trova semplicemente inutili.

Ma quando si imbatte in un buon libro la giornata gli si illumina e le pagine scorrono veloci una dietro l’altra.

Non fa più le maratone di lettura di una volta, ma passa ancora le sue buone ore alla scrivania in compagnia di questi amici, i soli rimasti. Quelli in carne ed ossa se ne sono tutti andati e la sua grossa agenda zeppa di nomi si è riempita via via di piccole croci.

La storia di Riccardo Maroni non è solo quella di un ingegnere con la passione dell’editoria e della cultura trentina. È una storia di tante e profonde amicizie che hanno segnato la sua vita.

Quando gli conferirono la medaglia d’oro del Ministero della pubblica istruzione per meriti culturali ci fu chi scrisse che avrebbe meritato soprattutto una medaglia d’oro in umanità. Chissà che un giorno o l’altro qualcuno non ci pensi.

 

Il profiIo di Riccardo Maroni pubblicato in questa pagina è tratto dal libro “Una vita per la cultura. Tredici illustri contemporanei raccontano”, pubblicato da Publiprint nel 1992. Sotto: l’Indice del volume.

 

 

 

“Rendere pienamente felice almeno una creatura…”

Chi conosce solo superficialmente Maroni lo vede come un rigoroso e testardo mazziniano, un pignolo e inflessibile signore dell’Ottocento costretto a vivere in un secolo non suo. Niente di più vero, naturalmente.

Provatevi a non mantenere la parola, a non rispettate la puntualità, a fare qualcosa per lui o con lui che non sia fatta come si deve. Non ve le manda a dire, non vi lascia intendere assolutamente nulla. Vi dice chiaro e tondo quello che pensa, con molta educazione, ma senza inutili cortesie.

Quante superficiali amicizie si sono ben presto dissolte alla prova dei fuoco dell’inflessibilità di Maroni, e come deve essergli umanamente costato questo suo carattere per nulla conciliante… Eppure, quanta umana solidarietà ha riempito la sua vita, quali fortissimi sentimenti spiegano tante sue scelte…

Maroni ricorda come lo colpirono e fece sue queste parole di Dostoevskij che lesse da ragazzo:

Rendere pienamente felice una creatura, almeno in qualche cosa, durante la nostra esistenza: io metterei ciò come comandamento per ogni uomo nella pienezza delle sue forze. L’obbligo di darsi alla vita pratica e di rendere felice almeno una sola creatura umana sarebbe in realtà un bene per il benefattore stesso, lo correggerebbe e lo renderebbe più giovane.

Forse è qui il segreto della sua longevità. Forse è questa la chiave di lettura per capire il personaggio Maroni: un uomo che ha cercato di rendersi utile e di rendere felice qualche creatura, fossero appartenenti alla sua famiglia, fossero amici.

Amicizia è una parola ricorrente in Maroni, di citazioni sull’amicizia sono pieni i suoi quaderni di appunti. Questa virtù Maroni l’ha nobilmente coltivata accanto all’amore per la moglie Rita, per la figlia Luisa, per i nipoti.

 

Fuga dall’Austria: a Torino con Damiano Chiesa

Come ricordarli tutti questi amici? Si dovrebbe cominciare da Damiano Chiesa… Già, potremmo raccontare un secolo di storia trentina attraverso le amicizie di Maroni, ma ci vorrebbe un intero libro.

Eccolo, dunque, con Damiano Chiesa, di due anni più vecchio, studenti entrambi a Rovereto e poi ancora insieme a Torino nei febbraio del 1915 all’università.

Chiesa era iscritto al secondo anno di ingegneria, Maroni al primo. Aveva frequentato per qualche mese il Politecnico di Vienna, ma nella capitale dell’Impero gli era giunta notizia che presto l’Italia sarebbe entrata in guerra.

Maroni tornò allora a Rovereto e lasciò clandestinamente il Trentino attraversando il confine italo-austriaco del Monte Baldo nella notte del 2 febbraio 1915.

In quella fuga lo aiutarono Giacomo Floriani, il poeta che sarà poi il suo miglior amico, e la guida Domenico Rigotti di Nago. Per quest’ultimo conserverà sempre un profondo sentimento di riconoscenza e non dimenticherà mai di citarlo nelle occasioni opportune. Ed anche se sono passati tanti anni ci tiene a che vengano ricordati con esattezza quanti gli sono stati vicino e gli hanno dato una mano.

 

Da sinistra: Giacomo Floriani, Attilio Rigotti, Domenico Rigotti, Riccardo Maroni a Nago (Tn) davanti alla chiesetta di San Rocco, luogo d’incontro per le fughe oltreconfine degli irredentisti nel 1914-15. La foto è tratta dal libro “Domenico Rigotti (Nago 1847-1927). Dalla cospirazione mazziniana (1863-1864) alla rete del fuoriuscitismo (1914-1915)”, a cura di Tullio Rigotti, Gruppo Culturale Nago-Torbole, 2015.

 

Maroni, attraversato il confine del Monte Baldo, proseguì per Torino dove ritrovò Damiano Chiesa. Frequentavano la redazione dei giornale irredentista “L’ora presente” che, ricorda l’ingegnere, “ebbe vita brevissima, come un brulotto che deve solo contribuire a provocare l’incendio”.

Spedivano i pacchi e distribuivano il giornale per le strade.

La cosa durò poche settimane. Il 24 maggio l’incendio scoppiò: l’Italia dichiarò guerra all’Austria e due giorni dopo Chiesa e Maroni (con loro c’erano anche Ceola e Lindegg di Rovereto, Tomasi di Trento, Moser di Arco e Minghetti di Cavalese) si arruolarono volontari nell’artiglieria.

Il loro sogno si avverava, tornavano in Trentino con l’uniforme dell’esercito italiano.

 

Foto a sinistra: Maroni (secondo da destra) con i legionari trentini Mario Ceola, Gino Minghetti e Guido Moser nell’estate del 1915 sul fronte trentino, a Cima Rive, nelle Giudicarie. Foto adestra: Maroni (primo da destra) a Cima Rive. In primo piano il comandante della batteria, Oxilia. (Foto Archivio Maroni)

 

Non amavano la guerra, volevano realizzare le speranze irredentiste

Le speranze irredentiste coltivate sui libri di Mazzini e negli animati incontri studenteschi diventavano finalmente una possibilità concreta.

Quei giovani trentini sentivano che non c’era tempo da perdere, avevano fretta di arrivare in prima linea. Non erano fanatici, tanto meno guerrafondai. Non avevano voglia di ammazzare nessuno, amavano la giustizia e la pace.

Maroni me l’ha ricordato più di una volta nel pieno della discussione sulla guerra del Golfo a proposito della quale io avevo espresso pubblicamente delle posizioni che lui non condivideva.

Loro, mi disse, non si erano nascosti di fronte al rischio, non si erano tirati indietro. E non andavano a combattere per interesse personale, né per obbedire a un ordine che non fosse quello della loro coscienza. Mettevano in gioco la loro vita.

Maroni scelse come nome di guerra “Virgilio Berti”. Per la verità lui avrebbe voluto “Vigilio” ma il maresciallo addetto alla registrazione (il nome di guerra era obbligatorio) gli rispose che “Vigilio non esiste, semmai Virgilio”. Inutili furono le spiegazioni dello studente universitario: che Vigilio fu vescovo e patrono di Trento, che morì martire.

Riccardo Maroni resto per quattro anni “Virgilio Berti”. Quel nome se lo portò sui vari fronti del Veneto e del Trentino. Ma dopo solo un anno da quel loro entusiastico arruolamento volontario, Damiano Chiesa venne catturato e fucilato. Finirà con Battisti e Filzi sui libri di storia.

 

“Non ho buttato via il mio tempo”

Maroni invece è ancora qui, vivo, e quei lontani momenti che sembrano appartenere ad un’altra epoca, ormai imbalsamata dalla storia, tanto esaltati qualche decennio fa quanto oggi dimenticati, non lo lasciano senza emozione.

Non sa spiegarsi perché proprio a lui è toccato di vivere così a lungo quando tante volte ha visto passare la morte vicino.

Nessuno avrebbe scommesso, lui per primo, che avrebbe attraversato indenne tutto il secolo, che avrebbe lui pianto tutti i suoi coetanei e amici, magari più forti, più sani, meno inquietati da preoccupazioni e impegni.

Maroni si guarda indietro ed è sereno. No, non ha buttato via il suo tempo, ha cercato di meritarsi questo privilegio vivendo pienamente, rendendosi il più possibile utile. Adesso, così come guarda serenamente indietro, guarda altrettanto serenamente avanti.

Da laico granitico qual è non spera in qualcosa di ultraterreno. Ma nell’apprestarsi a intraprendere il “buio viaggio” sa di avere tutte le carte in regola per affrontare qualsiasi giudizio.

 

Nonno Pietro e i garibaldini

In un libriccino di “note autobiografiche” pubblicato nel 1983 Maroni così descriveva il suo ingresso nella vita:

Sono nato a Riva di Trento (oggi Riva del Garda) il 17 luglio 1896. Mia madre, Luigia Brunati, proveniva da Tenno di Riva; il suo ceppo pare affondasse le sue lontane radici in terra toscana. Scomparve venticinquenne, un anno dopo la mia nascita, mentre ero a balia.

Il non avere neppure conosciuto mia madre, il non averla avuta a fianco su questa “aiola che ci fa feroci”, assillò la mia lunga esistenza e contribuì ad orientarmi verso il pessimismo e la solitudine. Mia nutrice fu una sana e buona contadina ledrense (da Tiarno), Clotilde Santolini, sposata Pederzolli, e dimorante ai piedi del Monte Brione presso Riva. Sento di dovere al suo latte materno, ai primi tre anni di vita campestre, alle sue cure affettuose, i principali artefici della mia alta età…

Vigilio Maroni, mio padre, fece parte della grossa famiglia di Pietro Maroni, originario di Pré di Ledro. Nonno Pietro era fornaio. Presto si porto a Pieve di Ledro, ove sposò in seconde nozze una Pellegrini.

Pieve allora era il centro principale della valle di Ledro.

Fu così che nel luglio 1866 rifornì di pane (di forno a legna) la colonna garibaldina venuta di rincalzo da Passo Nota. Allora mio padre aveva tre anni; e mio zio Bortolo (il futuro padre di Giancarlo, il noto architetto del Vittoriale e segretario di D’Annunzio) quattro.

Entrambi furono “carezzati” da quelle “camice rosse”. Questo particolare restò indelebile nelle due future famiglie Maroni, sfegatate irredentiste. I due titolari, due settimane prima del 24 maggio 1915, furono incarcerati nella Rocca rivana, e trasferiti poi per quattro duri anni, nella “Landa dei gatti”, il triste campo di internamento austriaco di Katzenau.

 

 

Zio Bortolo e il cugino Giancarlo

Riccardo Maroni è legatissimo a queste sue origini, soprattutto a quel contatto tra la sua famiglia e i garibaldini destinato a marchiare indelebilmente la sua storia.

Così come ricorda volentieri le lunghe chiacchierate con lo zio Bortolo, “dalle sole scuole elementari ma più intelligente di un laureato” e le tante ore passate insieme al cugino Giancarlo che già allora, quando gli si presentava l’occasione, metteva in mostra un talento artistico non comune.

Giancarlo Maroni il futuro architetto del Vittoriale… Tanto osannato negli anni della fortuna, tanto blandito allora dal solito stuolo di adulatori, quanto lasciato solo poi, a guerra conclusa, quando i riflettori si spensero su D’Annunzio e i suoi alti protettori.

Ma ancora una volta sarà il cugino Riccardo a non dimenticare: a Giancarlo dedicherà una bella monografia redatta con Giorgio Wenter e pubblicata nel ’62 a dieci armi dalla scomparsa dell’artista.

 

 

Un libro in cambio dei francobolli

Nella casa dei Maroni a Riva del Garda non c’era un libro, ricorda l’ingegnere:

Ne sentivo il desiderio, ma non osavo chiedere. Un’occasione mi fu propizia: il mio compagno Zucchelli mi offerse un suo libro in cambio di una raccoltina di francobolli. Accettai con gioia; da quel momento cominciò la mia “malattia della carta”, la mia passione per la carta stampata.

Tanto più che a pianterreno della nostra casa c’era una tipografia (archetipo delle stamperie d’oggi: tutto trasmissioni e cinghie) meta di mie frequenti visite, curioso e entusiasta dei caratteri a stampa.

Dalla Scuola Civica di Riva del Garda Maroni passa, dopo aver superato l’esame di ammissione, alla mitica Scuola Reale Elisabettina di Rovereto. Siamo nel 1908, e lui ha dodici anni.

Quella scuola, di cui parleremo più avanti, lo formerà più dell’università che lui, dopo la parentesi della guerra, completerà a Torino laureandosi in ingegneria nel febbraio del 1922.

 

Studenti dell’ultimo anno della Scuola Reale Elisabettina di Rovereto. Riccardo Maroni è il secondo da sinistra. (Foto Archivio Maroni)

 

Maroni, in un’intervista a Dario Benetti, ricorda che dopo la laurea se ne dovette tornare subito a casa, stremato dallo studio. Il medico gli aveva ordinato di pensare alla salute e di fare tante camminate in montagna. Il neolaureato obbedì e per due mesi non fece altro che girare per i monti a caccia di erbe medicinali.

 

Ingegnere civile e un po’ pubblicitario

Ristabilitosi, venne assunto dalla S.C.A.C.: un rapporto che durò 44 anni. Progettò soprattutto stabilimenti, in Italia e all’estero (Svizzera, Uruguay, Argentina, Albania) e si occupò anche di pubblicità. “Propaganda non dozzinale”, tiene a sottolineate.

Ha detto, ancora nell’intervista a Benetti:

Ho avuto una grande passione per il lavoro, la fatica; ma la prima cosa che ho amato è la liberta e senza di essa non sono mai riuscito a fare niente. Quando vado d’accordo con me stesso io sono a posto, per questo non ho mai voluto soci. Lavoravo otto ore e poi la sera ero qui al mio tavolo fino alle 12 di notte, tanto che certe volte mia moglie mi rimproverava. Bisognava guadagnarsi il pane con la fatica.

Antifascista convinto, negli anni del regime visse isolato ma almeno un merito attribuisce ai regime: di averlo costretto a leggere una montagna di libri.

Maroni, guardando al suo lavoro di ingegnere, ritiene di dover fare un bilancio più che positivo. Anche dal punto di vista sociale.

Ma – ribadisce – questa è un’attività che rientra nel normale apporto che ogni uomo, degno di tal nome, deve dare nelle più varie professioni, in relazione ai suoi doveri ed ai suoi diritti.

 

Foto di gruppo allo stabilimento Scac (Società cementi armati centrifugati) di Mori Ferrovia (Trento). L’ingegner Riccardo Maroni lavorò per la Scac 44 anni e progettò soprattutto stabilimenti, in Italia e all’estero. Maroni è il quarto da destra nella seconda fila. (Foto Archivio Maroni)

 

 Editore, il sogno di una vita

Ciò che invece non rientra nei normali obblighi di ogni persona è il modo con cui questa utilizza il cosiddetto “tempo libero”.

Lo si può sprecare, lo si può utilizzare in senso egoistico, oppure lo si può trasformare in un’occasione per rendersi utili agli altri, per rendere felice qualcuno, secondo la già citata espressione di Dostoevskij tanto cara a Maroni. Il quale, nel 1951, con trent’anni di lavoro alle spalle decise di ridurre il suo orario in azienda per dedicarsi alla realizzazione del sogno della sua vita: fare l’editore.

Il tempo che la vita di pensionato (per il momento a metà) gli regalava l’avrebbe speso a coltivare la sua vera passione, quella che gli era nata negli anni dell’infanzia mentre curiosava nella tipografa al piano terra della sua casa di Riva: pubblicare libri.

Un’idea precisa aveva in testa da tempo: valorizzare attraverso una collana gli artisti, i poeti, gli scrittori trentini e in primo luogo i suoi amici e compagni della Scuola Reale di Rovereto molti dei quali avevano intrapreso con successo la strada dell’arte.

 

Piccoli libri perfetti

E così, a cinquantacinque anni, un’età in cui di solito lo gente si mette il cuore in pace, si da al giardinaggio o alla partitella a carte con gli amici, Maroni avvia la sua piccola, grande impresa editoriale.

Mentre tanti passavano il tempo all’osteria, io lo passavo alla scrivania

dice.

Ed eccoli qui, ben allineati in un mobiletto del suo studio, nella casa di via Zara a Trento, zeppa di libri e quadri, i frutti di questo lavoro.

Sono i sessantatré volumetti della “Collana Artisti Trentini” e i ventiquattro della collana “Voci della terra trentina”.

Volumetti perfetti, in quel piccolo e classico formato tanto caro agli editori popolari, ma anche raffinati, d’inizio secolo.

Perfetti, perché non vi trovate un errore, un refuso, un’incongruenza, qualcosa fuori posto. Perfetti, perché vi è la ricerca costante della misura, dell’equilibrio, della proporzione.

Vi respirate, scorrendoli, l’amore per le cose fatte bene.

Maroni seguiva meticolosamente la nascita del libro, dall’inizio alla fine.

Cercava lo studioso più adatto e più disponibile a svolgere il lavoro su un determinato artista, collaborava con lui nella ricerca di notizie e documentazioni iconografiche. Lo sollecitava a rispettare i tempi e gli spazi affidatigli.

 

 

Fedeli e infedeli prenotatori

Curava personalmente l’impaginazione. Quindi la tipografia: luogo amatissimo e insieme odiatissimo da Maroni, perché gli piaceva trafficare tra quelle macchine favolose, ma nello stesso tempo doveva patire le pene dell’inferno per far eseguire il lavoro come voleva e come andava fatto.

E finalmente il libro usciva. Allora cominciava il lavoro di spedizione ai vari prenotatori che erano la fonte di sostentamento dell’impresa.

Cinque copie all’uno, venti all’altro, cinquanta al sostenitore affezionatissimo.

Ogni libretto di Maroni portava in calce la seguente dicitura:

L’appoggio di un piccolo gruppo di fedeli prenotatori, ha reso possibile la stampa di questa monografia. Ad essi va il mio ringraziamento e la gratitudine di quanti hanno a cuore ogni valido contributo all’autentica cultura trentina.

La Regione Trentino-Alto Adige prenotò fin dall’inizio un buon numero di copie. Questo sostegno a un certo punto venne meno e da quel momento su ogni libretto accanto alla dicitura di cui sopra, i lettori ne trovarono una seconda che diceva:

La Giunta regionale del Trentino-Alto Adige ha ritirato il suo appoggio alle collane CAT e VDTT fin dal l970.

Ma gli altri sostenitori non vennero meno e permisero all’ingegnere di portare fino in fondo il suo progetto. Un progetto che tanti giudicarono ambizioso e precario, destinato a spegnersi ben presto davanti alle prime difficoltà.

 

 

 

 

Riconoscente verso gli autori

Il nemico più difficile che Maroni incontrò sul suo cammino fu proprio la mancanza di fiducia da parte di tante persone ed istituzioni.

Non conoscevano Maroni, la sua ostinazione, la sua capacità di coinvolgere nell’impresa personaggi di altissima qualità. Casa Maroni diventò, a partire dal ’51, una piccola, operosissima casa editrice.

Allora – ricorda l’ingegnere – non c’era tutta quella burocrazia fiscale che c’é adesso, si poteva lavorare tranquillamente senza diventar matti con le carte.

Lui e sua moglie spedivano regolarmente ai vari indirizzi le copie prenotate. Erano diventati abilissimi nel confezionare pacchetti di ogni dimensione. All’ufficio postale erano di casa. Un viavai durato trent’anni.

Poteva succedere che lo studioso incaricato di redigere una monografia non mantenesse la parola. Era il momento peggiore per Maroni perché c’era un ritmo editoriale da rispettare e se saltava un anello saltava la catena.

Chi non manteneva la parola, con Maroni aveva chiuso. All’opposto, i collaboratori fedeli e laboriosi erano da lui venerati.

Come il padovano Francesco Cessi, il polacco Stanislw Szymanski, il trentino Giorgio Wenter. Per loro ha sempre avuto una parola di stima e riconoscenza.

Ottenne l’appoggio concreto di Giuseppe Fiocco, docente di storia dell’arte all’università di Padova, critico d’arte famoso. Fu Fiocco a segnalare a Maroni Lionello Puppi e lo stesso Francesco Cessi.

 

 

Ho fatto conoscere tanti artisti dimenticati”

Il risultato migliore della Collana Artisti Trentini? Dice l’ingegnere:

Quarantatré artisti hanno avuto la loro prima monografia… Molti rientravano fra i dimenticati, alcuni risultavano praticamente ignoti, come il grande medaglista rivano Antonio Abondio, l’incisore Antonio da Trento, l’architetto e scultore Mattia Carneri, la pittrice Fede Galizia, l’architetto Antonio Petrini, l’illustratore e pittore Elviro Andriolli, l’incisore rivano Girolamo Carattoni.

Questo aver tolto dall’oblìo tanti artisti è la cosa che più inorgoglisce Maroni. La considera una sorta di riparazione, un atto di giustizia verso chi ha creato, ha prodotto qualcosa di nuovo e di bello e non si è limitato a lasciare il mondo così come l’ha trovato.

 

 

Una società che si rispetti, ribadisce Maroni, deve tenere in grandissima considerazione tutto ciò. E invece… Qui Maroni scatta, ruggisce:

Invece si onorano spesso i furbi, si premia gente che ha pensato semplicemente ai propri affari e che per questo ha ottenuto un qualche successo.

La sua preferenza andava agli artisti minori e a quelli dimenticati. Per loro Maroni ha avuto quelle premure che si riservano ai figlioli meno fortunati. Lui continua a ripeterlo:

Sempre con questo Depero! E Segantini! Come se la vicenda artistica del Trentino si aprisse e chiudesse con loro. A loro libri e mostre, e celebrazioni di anniversari e convegni e articoli sui giornali. Non che io non li stimi, anzi.

Di Depero sono stato amico fin dal 1913 e gli dedicai una monografia che realizzammo insieme, a Pieve di Ledro. Depero scrisse per quel volumetto un bellissimo testo autobiografico. Gli dedicati poi un altro volumetto.

Lo stesso posso dire del grandissimo Segantini. Nel ’53 andai a visitarne la tomba a Maloja, in Svizzera, e lì mi incontrai con i suoi figli, Gottardo, e Bianca. Da quell’incontro nacque il nono volumetto della CAT per il quale Gottardo Segantini scrisse un saggio biografico sull’illustre padre.

Avrei voluto pubblicare un altro volumetto su Segantini dedicato questa volta ai suoi disegni, ma rimase uno dei progetti non realizzati. Quindi stima e devozione per questi grandi. Però…

 

 

 

 

L’omaggio al talento dell’amico povero

Però troppo clamore attorno ai soliti e invece troppo silenzio intorno agli altri. Maroni invece non dimentica. Non dimentica i minori, i giovani, gli sconosciuti. Non dimentica gli amici, i compagni di scuola. E qui incontriamo un’altra delle più belle pagine della vicenda umana e culturale di Maroni.

Il primo volumetto della CAT, Maroni lo dedico alle incisioni e alle pitture del suo compagno di scuola Carlo Cainelli, morto a Firenze nel 1925 a soli 29 anni. Cainelli, dopo Damiano Chiesa, fu una delle primissime e più dolenti piccole croci che affolleranno la sua agenda.

All’ingegnere luccicano gli occhi quando ricorda la visita che fece all’amico artista a Firenze poco prima che questi morisse.

Lo trovò che alloggiava e lavorava in una grande e fredda chiesa sconsacrata, che un fornello acceso non riusciva ad intiepidire.

Cainelli viveva in povertà e Maroni lo sapeva da tempo. Gli acquistava le sue belle incisioni (che hanno ancora il posto d’onore nel suo studio), lo aiutava in tutti i modi, lo incoraggiava.

Non so come facesse a vivere in quelle condizioni – ricorda Maroni – non c’e da stupirsi se morì cosi presto. Guadagnava poco, mangiava poco e quella chiesa era troppo fredda. Ma lui era preso dalla passione per l’arte, il resto non contava.

Ricorda come una sola incisione avesse fatto penare Cainelli per tre mesi. L’artista, in una delle tante e belle lettere all’amico ingegnere oggi conservate nell’ “archivio Maroni” presso la Biblioteca civica di Rovereto scriveva:

Lavoro perché sento un gran bisogno di fare e passo le mie notti insonni costruendo nella mia mente il mio avvenire. Avvenire molto lontano dal punto che sono, ma che una volontà di ferro… deve raggiungere. Nulla mi fa paura: né fame, né freddo, né mortificazioni mi sgomentano.

Maroni non dimenticherà l’amico. Col suo nome aprirà la Collana Artisti Trentini nel ’51 e a quel primo volumetto, che avrà una seconda edizione nel ’65, ne fece seguire un altro, qualche anno dopo, tutto dedicato ai disegni del suo sfortunato compagno di scuola. Perché il ricordo di quella limpida persona non poteva andare perduto.

 

L’amico Carlo Cainelli. (Foto Archivio Maroni)

 

La grande Scuola Reale Elisabettina

Cainelli fu uno dei tanti artisti usciti da quell’incredibile fucina che fu la Scuola Reale Elisabettina di Rovereto, la scuola superiore tecnica dove Maroni si formò.

Le “Reali” avevano un’impostazione severissima tanto che gli allievi avevano degli orari cui attenersi anche nel rientrare a casa la sera: d’inverno non oltre le 20, le 21 in primavera, le 22 d’estate.

Erano rigorosamente controllati, anche nella frequenza alla messa domenicale. “Ma che scuola!” non cessa di ripetere il laico Maroni.

Basta guardare l’elenco dei nomi che da essa sono usciti: Luigi Bonazza, Gianni Caproni, Fortunato Depero, Giorgio Wenter, Fausto Melotti, Luciano Baldessari, Giovanni Tiella, e poi Elio Martinelli, Umberto Maganzini, Giovanni Moschini, Giovanni Tonini, Diego Costa, Ernesto Armani … Pittori, scultori, architetti, inventori.

Davvero a Rovereto in quei primi anni del secolo accadde qualcosa di irripetibile.

Tanti hanno provato a spiegare il perché di questo miracolo. Di sicuro c’erano alla base due fattori importanti: degli eccellenti insegnanti e poi un particolare rigore unito ad un’apertura non comune alle nuove correnti culturali europee.

Maroni ricorda con ammirazione i suoi migliori insegnanti: Cesare Corriselli, autore di un ottimo trattato di Geometria descrittiva, Luigi Comèl, insuperabile maestro di “disegno a mano libera e pittura”, Luigi Ratini, successore di Comel, con cui gli allievi si intrattenevano a parlare d’arte anche in trattoria. E quella era solo una scuola tecnica superiore…

Ma, a sentire Maroni raccontare il clima di quegli anni sembra che fosse, invece, un’università. In quel singolarissimo ambiente; severo e vivace, nacque in Maroni una fortissima passione per l’arte, così come era nata in tanti suoi compagni di scuola, a partire da Cainelli.

 

Gruppo dell’ultimo anno scolastico alla Scuola Reale Elisabettina di Rovereto, il 15 luglio 1914. Riccardo Maroni è l’ultimo a destra della prima fila. Poi, per lui, l’università a Vienna e pochi mesi dopo la fuga oltreconfine per arruolarsi nell’esercito italiano. (Foto Archivio Maroni)

 

Valorizzatore di artisti (senza aspettare che muoiano)

Ma presto capì che quella passione avrebbe dovuto coltivarla in un altro modo, facendo non l’artista ma il valorizzatore di artisti. Quell’idea se la portò sempre dentro negli anni in cui fece l’ingegnere e la realizzò quando gli fu possibile.

E come non dimenticò l’amico Cainelli, così non dimenticò il maestro Luigi Ratini: la terza monografia della CAT sara per lui. Né Oddone Tomasi, pittore di Arco, né Eugenio Prati di Caldonazzo, per ricordarne due a lui cari.

 

 

E poi quanti artisti viventi nella sua collana! Dal citato Depero a Benvenuto Disertori, che Maroni conobbe a Firenze tramite Cainelli, dall’amico e collaboratore Giorgio Wenter, cui dedicherà ben tre volumetti, a Mario Disertori; da Giacomo Vittone, piemontese d’origine e rivano d’adozione, al compagno di scuola Luciano Baldessari, sul quale scrisse delle splendide pagine Giulia Veronesi; e poi Guido Polo, Cirillo dell’Antonio, Ernesto G. Armani, Camillo Rasmo, Giovanni (Nane) Tiella, Roberto Iras Baldessari, Bruno Colorio, Eraldo Fozzer, Silvio Clerico, Livio Benerti, Carlo Bernardi.

Una fila di artisti viventi dei quali Maroni non attese la morte per ricordarne degnamente l’opera. Perché questo è sempre stato un altro suo chiodo fisso: una società che si rispetti deve onorare in vita le persone meritevoli.

 

 

 

Gratuità, disinteresse, correttezza, precisione. E forti sentimenti

Non da tutti ebbe quella riconoscenza che era lecito attendersi.

Maroni, sia chiaro, non ha mai chiesto una lira per dedicare una monografia a qualcuno. Né ha mai dato una lira agli autori dei testi.

Chi entrava nel suo piccolo mondo editoriale sapeva quali erano le regole: gratuità, disinteresse, correttezza, precisione. Sono state le ruote che hanno tenuto miracolosamente in moto per trent’anni l’ingranaggio.

Ma il tutto era sostenuto non solo da un’esigenza culturale, per quanto chiara e forte, ma da sentimenti ancora più chiari e forti: di amicizia, riconoscenza, stima, amore per la propria terra, ammirazione per quanti ad essa avevano dedicato le loro migliori energie.

 

 

La riscoperta di Alessandro Vittoria

Quanti trentini conoscono l’opera di alcuni grandi artisti del passato loro conterranei? Quanti conoscono Alessandro Vittoria e Andrea Pozzo?

Maroni si poneva queste domande e dall’inevitabile risposta negativa che pure era costretto a darsi traeva stimolo per nuove, impegnative monografie.

Eccolo, allora, rivolgersi a Giuseppe Fiocco perché gli segnalasse uno studioso cui affidare la ricerca sul cinquecentesco Vittoria.

Fiocco gli mandò il giovane Francesco Cessi che Maroni accolse con non poche perplessità data l’inesperienza dello studioso e l’ampiezza della materia da trattare.

Ma la sicurezza di Cessi fugò le perplessità. Maroni, non avrà modo di pentirsene. Il giovane padovano produrrà, dal ’60 al ’62, ben cinque documentatissime monografie sul Vittoria che costituiscono ancor oggi il più completo studio mai realizzato sull’artista.

E così i trentini scopriranno le magnifiche medaglie, i bronzi, le sculture, le architetture, e soprattutto i sontuosi stucchi di questo loro conterraneo che a diciotto anni lasciò il Trentino per andarsene a Venezia a scuola del Sansovino e che il suo contemporaneo Vasari definì “scultore molto eccellente e amicissimo degli Studi”.

Maroni è giustamente orgoglioso di questa sua “perla” editoriale e ricorda con commozione Francesco Cessi, scomparso nel’90 poco più che cinquantenne, ancor pieno di vita e di idee da realizzare.

 

 

 

Andrea Pozzo, pittore e archettetto

Com’e orgoglioso di aver dedicato due monografie ad Andrea Pozzo, il grande gesuita pittore e architetto tra i cui capolavori spicca 1a decorazione della volta nella chiesa di Sant’Ignazio a Roma, una delle pagine fondamentali del Seicento illusionista romano.

Maroni chiese a Remigio Marini dell’università di Trieste di occuparsi della pittura del Pozzo e a Nino Carboneri, altro allievo del Fiocco, dell’università di Genova, di redigere una monografia sul gesuita. Due splendidi, esaurienti volumetti.

E così i due maggiori artisti di origine trentina del passato ebbero un loro posto d’onore tra i volumetti della CAT grazie anche alla capacità di Maroni di coinvolgere qualificati studiosi nella sua impresa editoriale.

Maroni bussava alle porte di università, musei, istituti culturali, chiedeva collaborazione con l’ingenuità e insieme la consapevolezza di non poter dare nulla in cambio se non la partecipazione creativa ad un progetto per tanti aspetti unico nel panorama editoriale italiano.

E spesso le porte gli si aprivano perché l’entusiasmo e il rigore di questo ingegnere facevano breccia anche nei cuori gelidi delle accademie e nelle atmosfere sonnacchiose dei musei.

Ma il “sì” ottenuto era solo l’inizio.

Maroni non mollava la presa, infittiva la corrispondenza col prezioso collaboratore, gli fissava appuntamenti improrogabili, non mancava occasione di ricordargli, se mai se ne fosse dimenticato, che in tipografia aspettavano il suo lavoro e così pure gli affezionati prenotatori e che comunque si metteva a disposizione per ogni necessità pur di concludere il libro.

 

 

“Se manca l’amore costruttivo la persona è perduta, per sempre”

Ogni volumetto della CAT è la storia di un parto: gioioso, doloroso, faticoso. A volte anche semplice e scontato come nel caso dei libri che gli scriveva da Varsavia il dott. Stanislaw Szyrnanski, etnografo, appassionato “cacciatore” di artisti di origine trentina che si distinsero in Polonia, puntuale collaboratore di Maroni per il quale redasse ben cinque monografie.

Un volumetto che costò molta fatica ma anche tanta soddisfazione all’ingegnere fu quello su Antonio Abondio, grande medaglista del ’500 nativo di Riva del Garda e molto attivo alle corti di Vienna e di Praga, del quale non esistevano pubblicazioni in lingua italiana.

Grazie alla collaborazione degli studiosi Fritz Dworschak, di Vienna, e Emanusla Nohsjlova Pratova, di Praga, tra i migliori esperti europei del settore, riuscì a portare a termine la pubblicazione dopo quattro anni di lavoro segnati da laboriose ricerche ed intensi rapporti epistolari.

I fascicoli che documentano la genesi dei volumetti della CAT sono ora conservati presso la biblioteca civica di Rovereto, istituzione di cui Maroni ha grande fiducia e stima.

Essi raccontano puntualmente la storia di questa inimitabile collana, che, nata nel 1951, si concluse nel 1980, quando l’ottantaquatrenne editore “dilettante” diede alle stampe il volumetto numero 63, quello su Girolamo Carattoni, incisore rivano, ultima fatica del fedele Szymanski.

Nel frattempo la Provincia Autonoma di Trento aveva raccolto e ristampato in dieci volumi le prime cinquantanove monografie della CAT: un grande riconoscimento per l’opera di Maroni.

Oggi è possibile acquistare questa edizione in dieci volumi mentre i singoli volumetti sono irreperibili, se non presso qualche antiquario.

In questi anni Maroni non ha voluto mettere in commercio le centinaia di copie che ancora gli erano rimaste. Ne avrebbe ricavato certamente un buon soldo dato il loro prezzo, appunto di artigianato. Ha preferito regalarle alle scuole, ad istituzioni culturali, a biblioteche, a studenti interessati. Ultimo gesto di generosità per un’opera nata nel segno della generosità.

Nella prefazione al volumetto sul Carattoni che chiudeva la sua decennale fatica Maroni citava queste parole del poeta e suo grande amico Biagio Marin, quasi novantenne:

Un uomo che muore… vale solo per quella opera che è riuscito a fare. Ognuno di noi è legato, nella sua realtà umana, alla sua opera. Dove l’opera manca, manca l’umanità! e siamo perduti… Dove manchi l’amore costruttivo, anche la persona, questa meraviglia del mondo, la coscienza personale, il miracolo dei miracoli, può essere perduta, per sempre.

 

 

Voci della terra trentina

Nel 1959 Maroni diede vita ad una seconda collana, “Voci della terra trentina”.

Vi trovarono posto “personalità trentine illustri, meritevoli di documentazione”, come ebbe a dire.

Cioè poeti, scrittori, commediografi, musicisti, scienziati, critici, personaggi che avevano avuto un posto particolare nella storia del Trentino e nel cuore di Maroni.

Ecco allora le poesie di Giacomo Floriani, sul quale apriremo un capitolo a sé avendo egli avuto una parte decisiva nella vicenda umana e culturale di Maroni; gli studi del musicologo Renato Lunelli, organista in S. Maria Maggiore a Trento, che Maroni, suo grande amico, ricordò come insigne studioso ma anche come “uomo semplice, umile, negato alla corsa agli onori, refrattario ai pezzi di carta illusori ed agli orpelli fasulli”; le commedie di Dante Sartori, irredentista; le “prose futuriste” di Depero, le “prose scelte” di Benvenuto Disertori, artista poliedrico e umanista raffinato; gli scritti d’arte di Gino Fogolari, già direttore delle Gallerie dell’Accademia di Venezia.

 

 

Un posto speciale per Cesare ed Ernesta Battisti

Ma un posto particolare meritano i volumetti Tre processi a Cesare Battisti. Dibattiti; autodifese, commenti e Ernesta Bittanti Battisti collaboratrice di Cesare Battisti.

Uscirono nel 1971, curati dai figli dei Battisti, rispettivamente da Livia e Camillo, e costituirono il segno concreto della devozione di Maroni per la famiglia Battisti.

L’ingegnere non conobbe personalmente Cesare Battisti. Da studente ne ascoltò un discorso durante un convegno dell’irredentista “Associazione degli studenti universitari trentini” e se ne appassionò, anche se non fu mai socialista.

Restò sempre fedele alle idee di Mazzini anche se del socialismo ammirava lo slancio umanitario, la ricerca di giustizia e libertà, il rigore morale di tanti suoi dirigenti e militanti.

Diventò amico di famiglia dei Battisti dopo la guerra ed Ernesta Bittanti, vedova del fondatore del socialismo trentino, sarà una convinta sostenitrice delle iniziative editoriali di Maroni.

 

 

 

 

Il grande grecista Untersteiner  e le notti dell’anima dell’emigrante Mascotti

Come un posto particolare meritano i due volumetti di Mario Untersteiner, grande traduttore e studioso dei classici greci, Saggi sul mondo greco e Incontri.

Maroni volle che i trentini conoscessero la figura e l’opera di questo insigne roveretano di cui ancor oggi si ristampano i testi.

Né va dimenticato il volumetto di poesie di Giuseppe Mascotti, Notti, perché Mascotti occupa un posto speciale nella vicenda di Maroni. Non ancora ventenne esordì come poeta all’indomani della seconda guerra mondiale e una sua lirica, “Pastore”, entrò a far parte, nel ’46, di un’antologia di poeti trentini intitolata Narciso e pubblicata a Rovereto.

Animo sensibilissimo, con un’infanzia tormentata alle spalle, Mascotti trovò nell’ingegnere ascolto ed aiuto concreto.

Poi, nel ’48, emigrò in Argentina, dove vive tuttora, mantenendo sempre intensi rapporti epistolari con Maroni. Il quale, nei ’75, volle pubblicare le sue poesie giovanili, unitamente ad una raccolta di liriche composte in Argentina, nella collana “Voci della terra trentina” con il titolo di Notti (poesie della notte dell’anima).

Oggi Mascotti pubblica libri di poesie in spagnolo, ed a Rosario, dove vive, anima serate di poesia dialettale trentina ricordando sempre il vecchio amico ingegnere.

 

 

 

I “Fiori” del poeta Floriani

Ma è tempo di aprire il capitolo Floriani.

Davvero il sodalizio tra Giacomo Floriani e Riccardo Maroni costituisce qualcosa di assolutamente ineguagliabile. La storia della baita Floriani, su cui poi ci soffermeremo, ne è la testimonianza più eloquente.

Floriani, come sappiamo, aiutò il giovane Riccardo Maroni ad attraversare clandestinamente il confine alla vigilia della prima guerra mondiale.

Era figlio di contadini di Tenno, viveva a Riva del Garda dove lavorava come tipografo e da dove mandava al “Popolo” di Cesare Battisti vivaci corrispondenze.

Anche lui, come Maroni, nel 1915 passò il fronte e si arruolò come volontario nell’esercito italiano.

Non fu cioè della categoria del poeta Giovanni Prati che cantava “Armiamoci e partite!”

dice Maroni.

Dopo la guerra si ritrovarono a Riva del Garda. Floriani scriveva poesie e le teneva nel cassetto. Maroni voleva farle conoscere e nel ‘28 fece stampare a Milano la prima raccolta di poesie dell’amico poeta con il titolo Fiori de montagna.

Il libro uscì con la prefazione di Giuseppe Zoppi, poeta, scrittore, studioso ticinese, docente di letteratura italiana in quella cattedra di Zurigo che fu di Francesco De Sanctis.

Floriani esordiva come poeta, Maroni come editore “dilettante”. Il primo libro pubblicato da Maroni non poteva che nascere nel segno dell’amicizia. Floriani troverà nell’amico Maroni il suo più convinto estimatore e il suo più disinteressato mecenate.

 

Riccardo Maroni con il poeta Giacomo Floriani. (Foto Archivio Maroni)

 

Nel ’46 e nei ’50 seguirono altri due volumetti editi sempre da Maroni e nel ’59, quando l’ingegnere diede vita alla collana “Voci della terra trentina”, volle aprirla con la quarta raccolta (Canzoniere) di poesie dell’amico.

Ristamperà qualche anno dopo nella collana tutti i Canzonieri, cui nel frattempo se n’era aggiunto un quinto, e la chiuderà, nel 1982, con un volume “speciale” che raccoglieva tutte le poesie di Floriani e che rappresentava l’ultimo, definitivo omaggio all’amico poeta scomparso nel 1968.

Maroni aveva 86 anni quando pubblicò l’opera omnia di Floriani. Ne seguì la stampa con la meticolosità di sempre nel ricordo, come scrisse,

del lavoratore più povero, più modesto, più silenzioso, più leale, più solidale, più onesto che ho incontrato nella mia vita.

 

 

 

La fiaba della baita Floriani

Maroni non regalò solo tanti libri al suo amico. Si diede da fare perché gli si regalasse anche una casa. La storia della “baita Floriani” comincia nel maggio del 1946 quando il poeta scrive la lirica “La me baita”:

Té suplico Signor: Fame ‘na grazia

prima che mora.

Regaleme ‘na baita a la pastora,

ensogni dei me’ ‘nsogni,

desideri de tuta la me vita.

Maroni legge pochi giorni dopo la poesia. Prende sul serio il sogno dell’amico, non lo considera una delle tante, vane invocazioni che da sempre gli uomini trasformano in versi.

Sa che davvero l’amico cantore della montagna, dei suoi fiori, dei suoi cieli, della sua serenità sogna una casetta in montagna dove trascorrere gli ultimi anni, immerso in un mondo amico, lontano dalle chiacchiere e dalle vanità della vita.

Sa che il poeta non avrà mai i mezzi per realizzare quel sogno.

E allora, dopo aver letto la poesia e riflettuto un momento, guarda Floriani e gli dice:

Farò di tutto perché il tuo sogno diventi realtà.

Maroni non scherza. Fa partecipi dell’idea gli amici soci della sezione rivana della Società Alpinisti Tridentini che se ne entusiasmano e danno vita ad un comitato promotore. Tutti si sentono coinvolti. Floriani è il loro miglior poeta, devono onorarlo in vita, va ripetendo Maroni.

Qualcuno, naturalmente, considera strana e un po’ pazza l’idea: regalare una casa a un poeta dialettale? Perché mai? Non è un po’ troppo? Perché a lui, che dopotutto è una persona così comune, un privilegio così grande?

Ma Maroni non da ascolto alle critiche, spinge senza sosta i suoi concittadini a guardare in alto, ad uscire dalle meschinerie e dai piccoli calcoli. Perché onorare sempre i ricchi, i potenti, quelli che hanno fatto carriera, che si sono fatti largo nella vita? Onoriamo una volta tanto una persona semplice che ci ha regalato il dono della poesia, più prezioso di tanti altri che invece hanno nel cuore della gente il primo posto.

 

La commozione di Biagio Marin

E Maroni vince la scommessa.

Il comitato si mette al lavoro. Avvia una campagna di stampa, promuove serate e conferenze per raccogliere fondi.

Si individua il luogo tra i monti di Riva cari al poeta dove far sorgere la casetta. Maroni redige il progetto, numerose aziende offrono i materiali, singoli cittadini prestano gratuitamente la loro manodopera. È davvero una gara di generosità.

La mattina del 18 settembre 1949 la baita viene inaugurata con una grande festa.

Floriani, malato, non può essere presente ma è sua moglie Lucia che prende in consegna la casa. Sono passati tre anni, soltanto tre anni dalla promessa di Maroni.

Nella baita non manca nulla, nemmeno una piccola biblioteca. Maroni ricorda e ringrazia tutti quelli che avevano dato una mano ma, secondo il suo stile, non dimentica quelli che la mano non l’avevano data:

Nessuna offerta è pervenuta dalle autorità di Roma e di Trento e così dai partiti politici; praticamente assenti risultano i ricchi e gli arricchiti, i laureati, gli scrittori ed i poeti trentini, escluso il più povero di tutti, Giuseppe Mascotti.

Per vent’anni Giacomo e Lucia Floriani si godranno quel dono eccezionale.

La storia della “baita Floriani” spiega tutto il personaggio Maroni, quel suo tener legate vita e cultura, ragione e sentimenti, idealità e concretezza.

Quel suo non temere mai di guardare troppo in alto, oltre le consuetudini e la normalità del quotidiano, quella sua capacita di trasformate idee e sogni in realtà.

La storia della “baita Floriani” colpì anche un grande poeta come Biagio Marin che Maroni e Floriani conobbero nel ’52 a Verona in occasione della consegna al poeta di Grado del premio Barbarani (Floriani si era classificato secondo).

Scriverà Marin qualche anno dopo:

Fin dai primi tempi del nostro incontro, Maroni mi aveva parlato della Baita offerta, per sua iniziativa, dalla gente trentina al poeta Floriani. E questa sua storia mi aveva commosso fin nel profondo; e da quel giorno avevo ambìto all’amicizia di questo ingegnere che faceva poesie non di parole, ma di fatti e di opere.

Sarà poi lo stesso Marin a scrivere la prefazione al 4° Canzoniere di Floriani. L’amicizia tra il poeta di Grado e l’ingegnere trentino si andrà consolidando nel tempo sostenuta da una fitta corrispondenza che non venne mai meno, neanche quando Marin divenne cieco. Il poeta scomparve alla vigilia di Natale dell’85, a 94 anni, ultimo dei grandi vecchi amici di Maroni.

Più di una volta gli espresse l’ammirazione per come aveva aiutato e valorizzato Floriani: invidiava il poeta rivano per aver avuto un mecenate cosi fedele e disinteressato.

 

A Rovereto il 23 ottobre 1960 per l’uscita della venticinquesima monografia della Collana Artisti Trentini. Seduti da sinistra: Rita Maroni, Riccardo Maroni, Pia Marin, Maria Cainelli. In piedi da sinistra: Ferruccio Trentini, Giovanni Cainelli, Giovanni Tiella, Maria Marsilli, Pierino Marzani, Carlo Piovan, Biagio Marin, Maurizio Monti (sindaco di Rovereto), Tullio Fait. (Foto Archivio Maroni)

 

Prossimo ai 96 anni

Cosa dire di più di Maroni?

È qui, prossimo ai novantasei anni, nella sua casa, a Trento, accanto alla moglie.

Alle pareti e sugli scaffali i segni della sua lunga, intensa vita. Gli acciacchi della vecchiaia ogni tanto si fanno sentire, e sembrano perfino sorprenderlo.

Da Milano la figlia Luisa viene quando può a dare una mano.

Capita che suoni il telefono e che qualche studente chieda di essere ricevuto per aver consiglio ed aiuto per una ricerca o una tesi di laurea. Maroni non si nega ai giovani ed è contento di accorgersi di come i frutti del suo lavoro non siano andati perduti.

È sereno, anche se si arrabbia per quanto succede in giro. Lo spirito è sempre quello, gli anni non l’hanno cambiato.

Si consola riprendendo in mano i vecchi amici libri. Ma se un giorno qualcuno scriverà che lui ha dedicato la sua vita ai libri, non credetegli.

 

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Testo pubblicato nel volume di Autori vari, Una vita per la cultura. Tredici illustri contemporanei raccontano, Publiprint, Trento 1992, pp. 152-175.

 

L’Archivio Maroni è depositato in parte presso la Biblioteca Civica di Rovereto e in parte presso la Biblioteca del Mart (Museo d’arte moderna e contemporanea di Trento e Rovereto), sempre a Rovereto.

 

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Questo volumetto è un omaggio a Riccardo Maroni curato da Vincenzo Passerini e pubblicato con la collaborazione di Giovanni Marzari e il contributo di Delta Informatica nel 1988. È il catalogo dei libri pubblicati da Maroni, ciascuno accompagnato da una dedica all’ingegnere che l’autore o il personaggio oggetto della pubblicazione aveva apposto sulla seconda copia uscita dalla tipografia e che Maroni puntualmente chiedeva. Era un modo per suggellare la reciproca gioia per il traguardo raggiunto. La prima copia di ogni libro Maroni la inviava a Ernesta Bittanti, vedova di Cesare Battisti.

 

 

Vincenzo Passerini con Riccardo Maroni nel guiardino della casa dell’ignegnere a Pieve di Ledro, luglio 1988.

 

Commiato

Il quotidiano “l’Adige” del 21 settembre 1993 ricorda la scomparsa di Riccardo Maroni avvenuta il 17 settembre. L’ingegnere aveva dato disposizioni perché della sua morte fosse data pubblica notizia a funerali avvenuti.