La vita che non si arrende. L’ospedale di Saint Michael in Zimbabwe

L’ospedale di St. Michael. (Foto Vincenzo Passerini)

L’ospedale della missione cattolica di Saint Michael, nel cuore della savana, dista due ore e mezzo di strada da Harare, capitale dello Zimbabwe, lo Stato che fu la colonialista Rhodesia del Sud.

In questo magnifico e ricco Paese pochissimi bianchi imposero ai neri, il 95% della popolazione, uno spietato sistema di apartheid durato ottant’anni, fino al 1980. Ai bianchi il potere di comandare e star bene, ai neri quello di servire e di accontentarsi: vergogna imperitura della civiltà occidentale.

 

Nella savana più povera

Un’ala dell’ospedale. (Foto V. Passerini)

 

L’ospedale è un semplice fabbricato a piano terra che accoglie 120 malati divisi in quattro grandi stanzoni, più il reparto dei casi gravi di Aids.

Gente povera, spesso poverissima. I malati provengono dai villaggi di capanne sparsi nella savana per un raggio di settanta chilometri. Li portano su carretti trainati da buoi o da muli per sentieri e strade che torturano i sani. Le macchine sono rarissime.

Ci torniamo dopo due anni, per un progetto di aiuto dell’associazione “Il Melograno” di Brentonico [Trento], animata da Luca Zeni, e ci restiamo per dieci giorni tra la fine di agosto e i primi di settembre, ospiti della direttrice dell’ospedale, la dottoressa italiana Maria Grazia Buggiani, da quarant’anni in Africa e una voglia indistruttibile di resistere.

È stato Carlo Spagnolli, il medico trentino che opera nell’ospedale di Mutoko, a cinque ore da qui, nel Nord del Paese, a suggerire agli amici di Brentonico di aiutare Maria Grazia. Non perché il suo ospedale non ne avesse bisogno; anzi, ne ha urgentissimo bisogno. Ma perché ne aveva bisogno anche quello di Maria Grazia. L’emergenza è drammatica, per tutti.

 

La dottoressa Maria Grazia Buggiani, direttrice dell’ospedale, da quarant’anni in Africa. (Foto V. Passerini)

 

Il tiepido inverno finisce e la calda primavera colora i primi alberi. Ma tutto è bruciato dalla siccità che dura da un anno.

I contadini incendiano i prati e l’umidità della notte vi fa spuntare per pochi centimetri un’erba di un verde miracoloso che sfama per qualche giorno le mucche e le capre. L’orizzonte di giorno è sempre offuscato dal fumo dei fuochi che di notte disegnano macchie rosse ondeggianti nel silenzio della savana.

 

Il dottor Carlo Spagnolli, anche lui una vita per l’Africa.

 

L’Aids fa strage

Qui l’Ads fa strage. Al resto ci pensa la fame con tutte le malattie che trascina con sé.

L’ospedale accoglie bambini, uomini, donne, vecchi, partorienti. Feriti e malati di tutti i tipi, morenti, nuovi nati. Fa anche ambulatorio, sempre pieno. Un concentrato umano delle sofferenze e della voglia di vita di un popolo e dell’Africa intera.

Qui si continua a nascere, qui si continua a morire. Nello Zimbabwe delle terribili statistiche di questi anni i morti ormai superano i nuovi nati. Il 50% dei dodici milioni di abitanti è sieropositivo. Più di tremila i morti alla settimana. In un decennio la speranza di vita, che era tra le più alte dell’Africa, è scesa da 59 a 42 anni.

Uscendo dalla capitale Harare vedi un immenso cimitero, sempre più grande. Decine di venditori di piccole corone di fiori a forma di cuore espongono la loro merce ai bordi della strada. Sono azzurre, rosse, portano in inglese la scritta “riposa in pace”.

II 40% dei ricoverati al Saint Michael è affetto da Aids. Per le donne la percentuale è più alta. Sono le prime vittime innocenti dell’incoscienza e dell’arroganza degli uomini che spesso trascinano in una spirale di morte l’intera famiglia.

Educazione se ne fa, anche, ma la cultura dominante, coltivata anche dai politici, è quella dell’uomo che si impone, sempre, orgogliosamente, mentre irresponsabili leggende sulle cause dell’Aids vengono diffuse per nascondere le vere responsabilità.

 

L’ospedale di St. Michael. (Foto V. Passerini)

 

Salvare le donne, salvare  i bambini

Nell’ospedale, grazie all’aiuto di un organismo italiano, partirà presto un progetto speciale di assistenza al parto. È questo il momento cruciale in cui l’Aids si trasmette dalla madre al bimbo.

Qui nascono seicento bambini all’anno. Le partorienti sono accolte per qualche settimana prima del parto in una casa che autogestiscono. Stano insieme, cucinano, si scambiano consigli, si raccontano le loro storie, cantano.

Un baluardo fragile, l’ospedale, ma che resiste in un mondo che sta franando.

Una continua lotta per sopravvivere. Un giorno mancano gii antibiotici, il giorno dopo manca per ore l’energia elettrica, un altro giorno non si trova la farina bianca per la polenta, un altro il sale, un altro l’acqua, un altro il pane.

A volte mancano le lenzuola, i guanti, le siringhe, le medicine più banali, le flebo. In certi giorni i letti non bastano e i malati si stendono per terra, su una stuoia. A volte mancano anche le infermiere.

 

“Un baluardo fragile, l’ospedale, ma che resiste in un mondo che sta franando”. (Foto V. Passerini)

 

Ma si resiste, si continua, si pazienta, gli aiuti arriveranno, vedrete. La vita non si arrende. Anche se per tanti di loro non c’è speranza, la porta è sempre aperta.

Qui accolgono anche quelli cacciati dagli ospedali più grandi che non perdono tempo per chi è senza soldi e senza futuro. Qui ritrovano il sorriso. Ti sorridono tutti quando passi tra di loro, anche i più disperati, basta che abbiano solo un po’ di forza.

 

L’ospedale di St. Michael. (Foto V. Passerini)

 

“Non coccolatela troppo”

Qui ha da poco ritrovato il sorriso anche Francisca, una ragazzina orfana abbandonata in ospedale sei mesi fa. Per sei mesi non ha sorriso e Dio solo sa cosa aveva patito. Lei sta bene, ma non ha nessuno. Dove mandarla?

Vive nel reparto di pediatria, uno stanzone con quindici letti. In ogni letto un bambino, accanto una mamma, o una nonna, o una sorella, o nessuno. Spesso i genitori sono morti ambedue, per l’Aids soprattutto. Ai fortunati rimane una nonna.

Nell’Africa subsahariana è una situazione diffusa. Fra dieci anni ci saranno venti, trenta milioni di orfani in questo continente. Una bella sfida anche per la nostra civiltà della libertà infinita, della ricchezza infinita, della giustizia infinita.

Ma i vertici mondiali sull’Africa, Genova compreso, abbiamo visto come sono andati. Chiacchiere e botte a chi alza la voce. E adesso bombe, ancora bombe a uccidere altri innocenti.

Francisca non è l’unica orfana che ha trovato casa e famiglia nell’ospedale.

C’è Daniel, tre anni, vivacissimo, padrone del reparto.

E c’è Speranza, un frugoletto di due anni. Anche lei vive nello stanzone. Ma è sempre seduta nel suo lettino. Non riesce a camminare. Dimostra sette, otto mesi. L’ha lasciata qui alcune settimane fa la nonna che non ce la faceva a tenerla in braccio. I genitori sono morti.

Accanto al lettino c’è a farle compagnia una ragazzina, sua sorella. Speranza non piange e non ride. Ma se la prendi in braccio ti si appoggia e non si muove più. Non coccolatela troppo, ci rimprovera Maria Grazia. Quando non ci sarete più ne soffrirà.

 

“Speranza ha due anni, ma ne dimostra meno. Non riesce a camminare… I genitori sono morti. Non piange e non ride. Ma se la prendi in braccio ti si appoggia e non si muove più” (Foto V. Passerini)

 

Una casa per gli orfani

Adesso Maria Grazia sta per aprire una casa per gli orfani, realizzata con l’aiuto dell’Antoniano di Bologna, simile a quella realizzata da Carlo Spagnolli a Mutoko.

Nell’impresa l’aiutano gli “Amici di Maria Grazia” di Latina che in questi giorni sono qui con una delegazione. Hanno spedito in container anche un’ambulanza. La prima che questo ospedale vedrà. Come hanno fatto gli amici della Val di Fassa per Spagnolli. Che è sorretto, in questo suo impegno di frontiera, anche dall’associazione di Rovereto intitolata a suo padre, il senatore Giovanni, e da altri gruppi e paesi del Trentino (Mori, Folgaria, Brentonico, Tione…) e di altre regioni italiane. L’emergenza è drammatica.

Come Carlo Spagnolli, anche Maria Grazia non demorde. Più la situazione peggiora e più lei pensa a nuove iniziative.

Il  “Melograno” ha realizzato un allevamento di polli, gestito da personale locale, che dà carne sufficiente all’ospedale. Adesso si sta lavorando al progetto di una fattoria, annessa all’ospedale, con mais, frumento, miglio, arachidi.

 

L’allevamento di polli realizzato dal Melograno (Foto V. Passerini)

L’allevamento dà uova e carne all’ospedale e lavoro alle donne. (Foto V. Passerini)

 

La guerra nella Repubblica Democratica del Congo dissangua lo Zimbabwe

In questo Paese la terra coltivabile è bellissima, due tre raccolti all’anno nelle immense fattorie che fornivano di carne anche l’Italia, e di frumento altri Paesi africani.

Bisogna avere la terra, l’acqua, un discreto capitale di partenza, e saperci fare. Qui sono in grado di farcela. Il progetto è impegnativo, ma da queste parti si impara ad avere fiducia in sé e negli altri proprio nei momenti più duri.

Ma da cinque, sei anni la situazione è precipitata.

Lo Zimbabwe, ricco di terra, parchi naturali e miniere (oro, amianto, carbone, nichel) è un paese allo sbando. Come mai?

Prima le imposizioni capestro del Fondo Monetario Internazionale, poi la politica di Mugabe, al potere dal 1980, un tempo leader prestigioso della liberazione, l’hanno messo in ginocchio.

Quando cominciò, Mugabe aprì con gli aiuti internazionali, tra cui la cooperazione italiana, questi ospedali nelle zone rurali che i bianchi avevano sempre ignorato e sfruttato.

Il Mugabe di oggi, invece, tiene diecimila soldati in Congo a sostenere Kabila in quella che è chiamata la guerra mondiale africana, con Inghilterra, Francia, Stati Uniti e Belgio dietro i vari contendenti. Una guerra per le immense ricchezze dell’ex Zaire che ha fatto più di due milioni di morti e di cui le nostre televisioni non parlano mai.

Le spese di guerra dissanguano da quattro anni le casse dello Zimbabwe.

 

Luca Zeni (a destra), presidente dell’associazione Il Melograno, e Vincenzo Passerini.

 

Le terre espropriate e abbandonate

Poi gli espropri delle terre agli ultimi bianchi rimasti. Compresi i pochissimi italiani.

Prima la redistribuzione delle terre era avvenuta con accordi e risarcimenti. Il compromesso intelligente con i bianchi, che aveva segnato tutto il primo decennio di governo di Mugabe, aveva fatto dello Zimbabwe un esempio di passaggio saggio del potere nell’Africa post-coloniale.

Il problema della redistribuzione della terra c’è, ancora, ma la nuova politica degli espropri, bocciati anche da un referendum popolare e dalla stessa Corte Costituzionale, provoca più danni che benefici.

Molte delle migliori terre sequestrate se le prendono le burocrazie politiche, ministeriali e militari. Di solito corrotte. Le stesse che aprono nella capitale nuove banche e centri commerciali in lussuosi edifici.

Le altre terre sequestrate, quelle per i veterani di guerra, rimangono quasi sempre abbandonate. Per chilometri e chilometri vedi immense distese di splendidi campi abbandonati, con la capannina che è il simbolo dell’esproprio.

 

L’Aids ha fatto strage di genitori, gli orfani sono tantissimi. Nella foto: Vincenzo Passerini con un gruppo di orfani.

 

Decine di migliaia di lavoranti agricoli neri finiscono disoccupati. La tensione politica è altissima. L’opposizione, nera, guidata dai sindacati, spesso è repressa. Il suo giornale esce a singhiozzo. I turisti non vengono più, e i parchi naturali sono vuoti. Nessuno investe, tutti fuggono.

Fuggono anche le organizzazione umanitarie. Fuggono i medici e le infermiere locali. Vanno a lavorare in Zambia, o in Sudafrica, o in Australia, o in Inghilterra.

L’inflazione è alle stelle. La disoccupazione anche. Mancano spesso la farina per la polenta, il pane, il sale, la benzina. Nelle campagne la gente muore di fame, o si ammala, va ad affollare gli ospedali o si spegne nella solitudine. Sorte migliore non c’è nelle bidonville alla periferia di Harare.

 

 

Alla finestra dell’ospedale di St. Michael. (Foto V. Passerini)

 

La triste parabola di Mugabe

Ma la speranza è più forte

Che è successo a Mugabe? Forse la paura di perdere il potere è all’origine del suo incredibile cambio di rotta. Una storia vecchia quella del potere che chiama potere, come i soldi chiamano i soldi, ambedue mai sazi se non ci sono regole rispettate che impongono limiti e che esigono un libero giudizio su tutti, compresi gli eroi. Una vecchia e triste storia se chi comanda si fa le regole da sé.

Nemmeno Mandela sostiene Mugabe. Ma il grande Nelson ha saputo prendere le distanze dal potere, dopo averlo conquistato per il suo popolo con enormi sacrifici. Esempio raro nell’Africa dell’indipendenza.

Ma qui, di fronte a questo immenso continente, magnifico e dolente, ricchissimo di storia e cultura, culla lontanissima dei primi uomini, delle loro prime parole e dei loro primi pensieri, complicato e profondo quanto mai, si impara anche a tacere, a sospendere il giudizio, ad ascoltare, a dire: ne so poco, non ne so nulla. E per di più sono bianco.

Prima di partire il personale dell’ospedale ci organizza una festa. Ci sono tutti nel piazzale e sotto la tettoia. Malati e inservienti, parenti e amici. Ci sono anche i ragazzi delle scuole della missione.

Ogni gruppo canta e danza per noi. Con amicizia e gioia.

Canta e danza per noi anche il gruppo delle donne in procinto di partorire. Cantano e danzano le varie confraternite-cooperative delle donne dei villaggi che si aiutano per affrontare le spese dei funerali che capitano nelle loro famiglie. Ci offrono i loro doni.

 

Anche le donne accolte per l’imminente parto cantano e danzano alla festa del nostro commiato. (Foto V. Passerini)

 

È una festa incredibile in questo luogo di dolore e di speranza.

Un giorno, l’Africa, piena di vita, salverà il mondo.

La pietra scartata dai costruttori diventerà testata d’angolo.

 

Pubblicato sul quotidiano “l’Adige” il 17 settembre 2002.