La marcia dei volontari è durata due giorni e mezzo. Centoventi i chilometri percorsi a piedi dall’ospedale di St. Michael, nella savana dello Zimbabwe, alla capitale Harare.
A settembre l’inverno finisce e la primavera sprona gli alberi e gli arbusti a buttare foglie di un verde luminoso, quasi irlandese, che sfidano gioiose la lunga siccità.
Da gennaio non cade una goccia d’acqua. Il sole è più mediterraneo che africano, l’aria è fresca e uno potrebbe pensare che nel paradiso terrestre il clima potrebbe essere stato simile a questo, se non fosse per quella bruciante arsura.
I volontari sono ventotto, tre solo gli uomini, il resto donne di tutte le età, anche quasi anziane. Assistono gratuitamente a domicilio i malati di Aids della comunità che gravita attorno all’ospedale missionario di St. Michael diretto, sin dalla fondazione, avvenuta nel 1980, dalla dottoressa italiana Maria Grazia Buggiani.
Hanno inventato loro questa faticosa marcia per raccogliere fondi e sensibilizzare l’opinione pubblica e le autorità.
Una sfida alla rassegnazione
Nell’Africa spesso passiva e in perenne attesa di una salvezza che non arriva mai, nemmeno dai suoi più promettenti liberatori, l’azione dei volontari in cammino sotto il sole è una sfida alla rassegnazione che inaridisce e brucia più di tutte le siccità.
Le autorità cittadine e statali, si dice, li accoglieranno davanti al municipio, faranno un discorso e daranno loro un assegno.
I volontari vestono poveramente, ma dignitosamente. Indossano scarpe o sandali strapazzati dalle lunghe camminate per andare al lavoro, pascolare le mucche, cercare l’acqua, raccogliere la legna, comperare la farina, andare alla posta, alla chiesa, all’ospedale, e che hanno tolto più volte durante la marcia per non consumarli del tutto.
Sono contenti, cantano, chiacchierano, non si lamentano.
Hanno un sacco di cose da raccontarsi. Sono dei bravissimi narratori. Hanno ereditato dai loro padri e dalle loro madri la grande scienza della tradizione orale: memorizzare ogni cosa, nei minimi particolari, ogni gesto quotidiano, ogni parola, ogni incontro, e raccontare tutto dispiegando con cura e amore ogni dettaglio come si imbandisse una tavola a festa.
Anche se apparentemente non è accaduto niente di nuovo, tutto è nuovo, tutto è interessante, anche il gesto ripetuto ogni giorno, per anni ed anni.
Hanno legato in vita uno spolverino o un golf con cui si sono riparati durante le due fredde notti che hanno trascorso nelle stazioni di polizia dove hanno trovato un tetto e un piatto di sazda, la polenta di mais di cui si nutrono due volte al giorno.
Magari hanno avuto anche un po’ di cavoli cotti, o di carne di pollo, un lusso di questi tempi nello Zimbabwe ridotto alla fame e che fino a pochi anni fa nutriva mezza Africa ed esportava carne in Europa, anche in Italia.
Una ragazza zoppica, ha una fasciatura alla caviglia sinistra. Un giovane indossa una maglia del Milan che sembra aver fatto tutti i campionati dal 1899 ad oggi.
Una donna ha in mano il quaderno su cui ha scritto i nomi dei donatori, e la somma da loro ricevuta, incontrati lungo il percorso: trenta chilometri di strada polverosa nella savana, abitata da villaggi di capanne e povere casette sparse, quattro pareti e un tetto di eternit; e altri novanta chilometri ai bordi dello stradone percorso dagli autotreni che dal Sudafrica portano ogni giorno tonnellate di granoturco. Quindicimila alla settimana, un terzo di quelle che servirebbero per sfamare il paese. Ma non ci sono i soldi per comperarne di più.
Terre sequestrate e abbandonate
Da una parte e dall’altra dello stradone, e per tutti i novanta chilometri percorsi, i volontari hanno visto con un nodo alla gola la fertile terra estendersi a perdita d’occhio. Ma in gran parte abbandonata. I pozzi e gli impianti di irrigazione fuori uso o demoliti. Le sterpaglie trionfanti. Vacche magre, come quelle che hanno loro nella savana, che cercano ciuffi di verde ai piedi dell’erba alta e secca. Altre più fortunate che trovano l’erba fresca cresciuta, e sembra un miracolo, per otto, dieci centimetri, grazie all’umidità della notte, nei vasti prati incendiati una settimana prima.
Ogni tanto, campi irrigati e coltivati, prati verdi e vacche grasse. Per lo più in mano a qualche ministro o generale, o a uno degli ultimi bianchi.
I volontari sono passati vicino anche alla farm, grande azienda agricola, dove il proprietario, un bianco stimato da tutti, padre di due figli, fu ucciso due anni fa dai veterani della guerra di liberazione, mescolati a quelli finti, mandati dal capo assoluto del paese, Robert Mugabe, a occupare le terre dei bianchi. E a lasciarle poi, in gran parte, abbandonate.
La guerra era finita nel 1980, con un accordo esemplare per la storia dell’indipendenza africana, che regolava il passaggio del potere dall’esigua minoranza bianca, che lo controllava da quasi un secolo, alla maggioranza nera, emarginata ed esclusa dal sistema razzista dell’apartheid. E prometteva una graduale redistribuzione della terra a favore della popolazione nera.
Speranze tradite
Mugabe, il liberatore, scuola cattolica alle spalle, sei lauree di cui tre prese durante il decennio di prigionia nelle carceri rhodesiane, marxista pensoso e accorto, fama di grande leader, ha tradito via via tutte le speranze. Peggio dell’Aids, il demone del potere l’ha preso e vinto.
Ha liquidato, lui filo-cinese, i compagni di viaggio filo-sovietici, negli anni che precedettero la caduta del Muro.
Ha poi represso nel sangue l’opposizione nera con le truppe speciali istruite dai nord-coreani, esperti nel produrre eserciti e carestie.
Ha prosciugato le casse dello Stato mandando diecimila soldati a combattere a fianco di Kabila nella “guerra mondiale africana” che con due milioni e mezzo di morti ha sconvolto in questi anni la Repubblica Democratica del Congo e ha arricchito un po’ di generali, ministri e multinazionali.
Ha usato i brogli elettorali per impedire che la nuova opposizione nera, guidata dal tenace leader sindacale Morgan Tsvangirai, che aveva vinto il referendum sulla questione della terra nel 2000, vincesse anche le elezioni dell’anno dopo e quelle successive.
Per reagire al declino politico ha sequestrato le terre dei bianchi, ha spinto gli ex-combattenti, veri e finti, ad occuparle e lo scorso 29 agosto le ha nazionalizzate. Ultimo atto di un’operazione politicamente demagogica ed economicamente disastrosa.
Mentre i suoi amici cinesi annunciano al mondo che le loro aziende private producono più di quelle pubbliche, lui va a Pechino a chiedere aiuti. Ma la Cina non regala più nulla e chiede pesanti contropartite.
Intanto lo Zimbabwe precipita e non ci sono abbastanza sementi e concime per preparare il prossimo raccolto. Lo Stato fa la pubblicità alle sigarette per raccogliere tasse.
Fuggono i medici, gli infermieri, i tecnici migliori.
Cacciato Andrew Meldrum, l’indesiderato corrispondente del “Guardian”, il giornale della sinistra inglese, colpevole di aver detto la verità sulle ripetute violazioni dei diritti umani da parte del regime.
Se n’è andato in volontario esilio, invece, il grande cantante Thomas Mapfumo, voce simbolo della lotta dei neri per l’indipendenza.
Chi ci salverà?
Qualche camionista si è fermato vedendo lo strano piccolo, corteo che portava un piccolo striscione e agitava un quaderno. E ha lasciato una banconota. Magari anche qualche automobilista, sul suo fuoristrada, si è impietosito.
Ma il traffico è scarsissimo. Il Paese è senza carburante. Non ha i soldi per comperarlo.
Perfino il Comune di Harare è ricorso al mercato nero per riempire i serbatoi dei propri automezzi. Ci vogliono molte banconote per comperare qualcosa. L’inflazione, ha scritto il quotidiano governativo “The Herald” il 13 settembre, proprio il giorno prima che i volontari iniziassero la loro marcia, è del 265% su base annua.
Otto anni fa ci volevano dieci dollari locali per comperare un dollaro americano. Adesso ce ne vogliono ventiquattromila. Ogni tre, quattro mesi raddoppiano gli stipendi illudendo la povera gente. Che continua a non avere soldi per mangiare. O per comperare il sapone.
Le condizioni igieniche nelle famiglie sono rapidamente peggiorate. La dottoressa Buggiani se n’è accorta, da tempo. Accanto ai 120 malati che accoglie l’ospedale di St. Michael, ce ne sono altri cinquanta che ogni giorno affollano l’ambulatorio.
Aumentano i bambini malnutriti. C’è un reparto per loro in ospedale, sempre pieno. Vengono lentamente rimessi in forze. Certe famiglie nei dintorni dell’ospedale non hanno assolutamente nulla da mangiare.
I fedeli “Amici di Maria Grazia” di Latina, l’associazione Il Melograno di Brentonico, guidata con passione da Luca Zeni, e poi il medico roveretano Carlo Spagnolli, impegnato su molti e difficili fronti, aiutano l’ospedale e la casa per gli orfani impedendo che chiudano per le crescenti difficoltà. In attesa che la situazione politica cambi.
La carità ha i suoi limiti e le sue illusioni. Ma i limiti e le illusioni della politica sono anche peggiori.
In quanto alla giustizia, se chi lotta in nome della giustizia è il primo a tradirla, chi ci salverà?
E poi, quando la miseria e la sofferenza hanno un nome, un volto, una storia cessano di essere l” “Africa”, i1 “Terzo Mondo”, il “Quarto Mondo”, i “Paesi in via di sviluppo”, i “Paesi impoveriti”.
Cessano di essere uno dei tanti “problemi”. Si imprimono dentro e non ti lasciano più.
Due cieli sopra il capo
Quando i volontari sono arrivati alla periferia di Harare, hanno visto le macerie della disumana “operazione Murabatsvina”, o “operazione pulizia”.
Il 19 maggio scorso, per ordine di Mugabe, i bulldozer hanno dato inizio alla distruzione di migliaia di casette e baracche abusive lasciando senza casa 700.000 persone (il Paese conta 12 milioni di abitanti in tutto), come accertato sul posto da una commissione dell’Onu.
Distrutte anche le migliaia di bancarelle dei venditori ambulanti. Prima vi trovavi ogni cosa, e molti potevano sopravvivere. Vendendo tre pannocchie, due pomodori, una tovaglia fatta a mano, due cesti in vimini.
Un’operazione “pulizia” simile a quella di Nairobi e di altre capitali africane. La stessa brutalità dell’“ordine restaurato”. Che Mugabe trasforma in un’operazione di civiltà nei suoi discorsi internazionali, dove si presenta come capofila dei paesi poveri.
Sulle macerie c’è chi cerca qualcosa da recuperare. Devono aver guardato in silenzio, i volontari. Tutti nel Paese sanno di questa operazione, subito chiamata “Tsunami”. E forse a casa di qualcuno di loro, nella savana, è arrivato un parente cacciato coi bulldozer dalla città.
Tanti dei cacciati hanno dormito per settimane all’addiaccio mentre le autorità impedivano alle organizzazioni umanitarie internazionali e alle chiese sudafricane, cattoliche e protestanti, di portare loro viveri e coperte.
Ci ha pensato la primavera a ridare ai volontari in marcia la speranza, mentre la polizia li scortava in bicicletta verso il municipio. Magnifici viali di jacaranda, coi loro fiori azzurri, hanno formato un secondo cielo lungo il loro cammino verso il centro della città. Con due cieli sopra il capo, come si può disperare?
Pazienti, non rassegnati
Arrivato al municipio, il drappello di volontari si mette in fila davanti alla scalinata che porta all’ingresso. Cantano e danzano, tra lo stupore dei passanti. Poi si siedono sugli scalini, all’ombra. Attendono. Un’ora, due ore, due ore e mezza.
Il loro responsabile va avanti e indietro. Il sindaco non si è fatto vedere, neanche la vice-capo del governo, che pure avevano assicurato.
La delusione è tanta. Centoventi chilometri a piedi e nessuno ad accoglierti? La dottoressa Buggiani li conforta.
Finalmente arriva un alto funzionario del Comune. Fa lui il discorso. E lo sa fare. Sono proprio bravi a parlare. Strappa applausi, i volti si distendono. Poi il funzionario accompagna il responsabile di sopra. Gli darà un assegno. Forse con molti zeri. Ce ne vogliono proprio tanti per dare un po’ di sostanza ai numeri.
La sera incombe. Quando il sole tramonta è subito notte.
Torneranno a St. Michael con i bus di linea, lenti e stracarichi. A loro la pazienza non manca. Ti viene da dire che ne hanno anche troppa. Ma almeno loro non appartengono al popolo dei rassegnati.
Pubblicato sulla rivista “Il Margine”, n. 10, 2005.